Home Notizie del Giorno Visto per voi a teatro: “Parenti serpenti” con Lello Arena

Visto per voi a teatro: “Parenti serpenti” con Lello Arena

da Alessandro Carli

Capisci che il divertente e amarissimo “Parenti serpenti” – lo spettacolo scritto da Carmine Amoroso e passato sulle assi di teatro Diego Fabbri di Forlì nel primo fine settimana di dicembre – è stato realizzato prima del Covid soprattutto da due elementi: la durata, due atti con intervallo per un totale di circa due ore e 20 minuti (dall’inizio della pandemia in poi la tendenza è quella di preferire l’atto unico per evitare assembramenti durante la pausa) e la scelta scenica di far recitare agli attori una parte delle battute in platea, quindi tra il pubblico.

La regia di Luciano Melchionna (sua anche quella, magnifica e geniale e innovativa di “Dignità autonome di prostituzione” passato anche al Teatro Titano di San Marino) è uno sguardo illuminato su due genitori, Saverio (Lello Arena) e Trieste (Giorgia Trasselli, la tata di “Casa Vianello”), alla vigilia di Natale: aspettano di festeggiare il 25 dicembre con i propri figli. Il rischio di “scivolare” in una copia brutta di “Natale in casa Cupiello” di Eduardo svanisce sin dalle prime battute: i registri su cui spinge il testo sono prevalentemente comici, e toccano sia Arena che Trasselli che i figli con i rispettivi compagni e compagne (Raffaele Ausiello, Marika De Chiara, Andrea de Goyzueta, Carla Ferraro, Luciano Giuliano e Annarita Vitolo).

La scelta registica di lavorare su tre spazialità definite – il proscenio che ospita la sala da pranzo, una salotto con un albero addobbato ricavato in cima a una scala e le stanze “nascoste” dietro a una porta – è funzionale alla mise en scene perché sono comunicanti: i primi, ap_Parenti flussi comici dei due, le classiche dispute tra marito e moglie, diventano presto il pre-testo che apre una voragine sull’età che avanza. L’arrivo della festività porta i personaggi a vivere, pirandellianamente, quella “stanza della tortura” tratteggiata da Giovanni Macchia. Le maschere convenzionali, a mano a mano che la famiglia parla, si sciolgono lentamente facendo emergere i silenzi e i fantasmi: il figlio omosessuale, la figlia che non più avere bambini, le corna all’interno del nucleo. Il tutto, condito da un funzionale registro linguistico, il napoletano, che dona al dramma una profonda autenticità.  

Ma è forse il ritmo dato alla pièce, ritmo quasi rock, movimentato, vibrante, a far correre veloce il tempo: corpi quasi mai fermi – straordinario lo scambio di accuse tra la bravissima Annarita Vitolo e Carla Ferraro, la donna che ha “intortato” e sedotto il marito -, toni vocali alti, squillanti, energici.

La chiusa, con Lello Arena e Giorgia Trasselli che diventano le statuine di un presepe apocrifo, lasciano allo spettatore un finale aperto, solipsistico: tante verità quanti sono stati gli spettatori presenti (il “Diego Fabbri”, venerdì 3 dicembre, era pienissimo). Quella che ha trovato d’accordo tutti è stata la qualità del lavoro: gli applausi hanno spiegato agli attori che lo spettacolo c’è, che è arrivato in platea. E che a teatro si può anche ridere, almeno per qualche ora, prima di tornare alla vita vera. Sempre che esista…

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