Ha giusto 36 anni Francesco quando scrive “Il pensionato”, in quella casa di Paolo Fabbri 43 di Bologna dove la cucina dalle mattonelle di graniglia rossa si affaccia su un fazzolettuccio di giardino che, col suo cespuglio di rosmarino, due vasetti di gerani è una salvia spelacchiata non par proprio una savana. Dall’altra parte della rete le cose van pure peggio, non c’è la mano compassionevole di una donna a prendersene “parziale” cura e sotto un alberello striminzito fa bella mostra di sé solo una ciotola è una lettiera per gatti, unici coinquilini di un signore anziano, ossequioso e schivo come tutta la sua generazione. Io lo ricordo come fosse adesso il Signor Magnani: il gilè rosso bordeaux abbottonato su una camicia un tempo azzurrina che avevo certo visto tempi migliori. Roberta è sempre cordiale con lui, anche se le parla sempre dei gatti che attraversano il cortile e ai quali a tutti ha dato un nome…
“….Lo sento da oltre il muro che ogni suono fa passare / l’odore quasi povero di roba da mangiare. / Lo vedo nella luce che anch’io mi ricordo bene / di lampadina fioca, quella da trenta candele / fra mobili che non hanno mai visto altri splendori. / Giornali vecchi ed angoli di polvere e di odori….”.
Par quasi di vederlo, Francesco ragazzino con i suoi pantaloni corti in una Modena appena uscita da una guerra che ha affamato tutti e sbocconcellato le case e le strade. Par quasi di sentire la sua voglia di montagne e boschi.
“E poi lo incontro ancora quando viene l’ora mia / mi dà un piacere assurdo la sua antica cortesia / ‘Buon giorno, professore. Come sta la sua signora / E i gatti? E questo tempo che non si rimette ancora’ / Mi dice cento volte fra la rete dei giardini / di una sua gatta morta, di una lite coi vicini / E mi racconta piano, col suo tono un po’ sommesso / di quando lui e Bologna eran più giovani di adesso….”.
Roberta Baccilieri – la prima compagna di Francesco – i lunghi capelli rossi che ricadono come una fiamma su un décolleté generoso, il sorriso intelligente in quel bel viso dai tratti d’altri tempi piaceva a tutti noi amici, lei che non c’ha mai negato un bicchiere e un piatto caldo neppure a notte fonda, di ritorno da un concerto, o solo da un giro di carte.
“…e ancora mi domando se sia stato mai felice / se un dubbio l’ebbe mai, se solo oggi si assopisce / se un dubbio l’abbia avuto poche volte oppure spesso / se è stato sufficiente sopravvivere a se stesso. / Ma poi mi accorgo che probabilmente è solo un tarlo / di uno che ha tanto tempo ed anche il lusso di sprecarlo / non posso o non so dir per niente se peggiore sia /a conti fatti, la sua solitudine o la mia / Diremo forse un giorno: ‘Ma se stava così bene’ / avrà il marmo con l’angelo che spezza le catene…”.
Quante notti passate a correggere una strofa, e quante bottiglie vuote prima che sorga il giorno, è la malinconia che sale un po’ dal vino, un po’ dai presagi del tempo che passa e ci fa tutti pensionati.
“Coi soldi risparmiati un po’ perché non si sa mai / un po’ per abitudine: ‘Eh, son sempre pronti i guai’ / Vedremo visi nuovi, voci dai sorrisi spenti / ‘Piacere’, ‘È mio’, ‘Son lieto’, ‘Eravate suoi parenti?’ / E a poco a poco andrà via dalla nostra mente piena / Soltanto un’impressione che ricorderemo appena…”.