Home Tempo LiberoEventi Visto per voi a teatro: il secondo weekend del Festival di Santarcangelo 2021

Visto per voi a teatro: il secondo weekend del Festival di Santarcangelo 2021

da Alessandro Carli

L’incipit di PA.KO doble di Paola Stella Minni e Kostantinos Rizos è probabilmente il miglior “attacco” visto al Festival di Santarcangelo negli ultimi dieci anni: nel buio del Lavatoio una luce si sofferma sui due sederi degli artisti, accucciati e rivolti verso il pubblico. Una nudità propedeutica al lavoro, imperniata di enorme ironia e giocosità. I due “lati b” difatti iniziano a cercarsi con piccole “culate”, poi timidamente si allontanano indispettiti per ricercarsi ancora, in una danza fanciullesca. Ben sincronizzati, i movimenti portano lentamente poi a un’età più adulta, verso Kostantinos che dedica una serenata rock – chitarra elettrica alla mano – alla novella Euridice, che ascolta a tre quarti la musica sino al ricongiungimento finale quando i due diventano un “drago cinese” che zampetta sulla scena. Delicato, a tratti positivamente infantile, armonioso agli occhi (meravigliosa la pioggia di polvere di gesso rosso che “ingessa” i loro corpi), a tratti beckettiano (facile rivedere nei due Estragone e VladimirA di “Aspettando Godot”, soprattutto nell’attesa del tempo), PAKO racconta non tanto l’amore ma il corteggiamento tra due persone che crescono assieme.

Sonora desert – ospitato a Villa Torlonia – è la conferma della poetica di Muta Imago, sempre tesa a mettere al centro l’esperienza diretta dello spettatore, chiamato dapprima a visitare una sala circolare in cui sono state appese, alle pareti, una serie di pagine strappate dai libri del sociologo Jean Baudrillard, del neuropsichiatra J. R. Smythies e della scrittrice Rebecca Solnit (ma ce ne sono tanti altri) mentre al centro della stanza una faro stroboscopico trasfigura gli occhi. L’installazione – perché di questo si tratta – poi prosegue in una seconda stanza dove il pubblico, dopo aver preso la propria maschera per gli occhi (del tutto simile a quella contro le occhiaie) viene invitato a riposare su alcune amache sospese. Il soffitto si colora di azzurro, una musica sottile inizia a crescere, a farsi importante, a far vibrare i letti (una soluzione scenica d’impatto già attraversata in una “Crescita” dalla Socìetas Raffaello Sanzio), a creare vibrazioni. Poi torna la quiete, ci si alza, si sorseggia una tisana e si esce, composti. Appagati.

Non convince invece Virtual Studies for a Dark Swan, lavoro firmato da Nora Chipaumire e messo in scena “Nellospazio” da Selamawit Biruk: per capire la trama occorre leggere il libro del Festival. Se il punto di partenza è facilmente intuibile (“La morte del Cigno”), così come la parola “dark” (la danzatrice è nera), più complicato è abbinare la sparatoria sonora che scandisce quasi tutti i trenta minuti di durata dello spettacolo (che vede Biruk muoversi, urlare e scagliare a terra qualcosa) al genocidio del Darfur e non invece al caso tragico di George Floyd.    

Disordinato ma sincero è Io non sono nessuno di Emilia Verginelli (in scena al “Lavatoio” assieme a Muradif Schermi e Michael Hrustic), un’indagine che, attraverso (anche) l’utilizzo della “presa diretta” con uno smartphone e alcune video-interviste proiettate su uno schermo posizionato sul fondale, racconta la case-famiglia e la possibilità che il teatro offre alle persone per “reinventarsi”. Emilia frulla tutto il suo mondo, la sua esperienza: scatolette di fiammiferi con un frammento poetico di Emily Dickinson donate agli spettatori prima di entrare, le merendine Kinder Brioss aperte e mangiate (ma anche offerte al pubblico), la break dance (con un Mura straordinario), “Enrico IV” di Pirandello (fatto recitare – ovviamente non tutto – a Michael).

Tecnicamente ineccepibile – luci, musiche, entrate in scena e pause – ma forse debole scenicamente e drammaturgicamente (ma non è l’aspetto più importante), V.Visitors di Teatro Magro (al Supercinema) si ispira alla miniserie televisiva degli Anni Ottanta e vede sul palco una dozzina di attori misti che “mettono in scena” il rapporto contemporaneo tra chi riceve “ospiti” e gli “ospiti” stessi. Uno spettacolo pulito, a tratti forse frammentato, dedicato al tema dell’accoglienza – molto attuale – che ha soprattutto un merito “sociale”, quello di dare voce a chi spesso non ce l’ha.   

L’atteso Metamorphoses (foto: Santarcangelo Festival) che Manuela Infante e Michael De Cock hanno creato sull’opera di Ovidio è il racconto di alcune storie – scenicamente troppe, lo spettacolo supera i 90 minuti – contenute nel libro e intrecciate alla contemporaneità: Pitagora è sì il nome del maestro di Numa a Crotone che nel testo ovidiano parla del mutare del tutto ma è anche quello di un poliziotto che indaga sulla morte di Procne e di Filomena. Lo spettacolo, costruito quasi tutto sulle potenzialità della voce (sarebbe andato bene per l’edizione del Festival del 2009, quella firmata da Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio), non disdice qualche interessante “architettura scenica” – belli i microfoni che diventano le corna di un cervo – e un pezzo musicale che ricorda le sonorità dei primi Sigur Ros. Una “Metamorphoses” potente e piacevole se vista e seguita con le orecchie, meno con gli occhi aperti.  

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