Home Dal giornale Bologna, le “osterie di fuori porta”: il regno di Francesco Guccini

Bologna, le “osterie di fuori porta”: il regno di Francesco Guccini

da Paolo Bandini Callegari

 “Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta”, quelle che han fatto la storia della cucina povera e della musica cantautorale, un mandolino, una chitarra e un certo numero di bicchieri di quel vino sincero, a volte un po’ asprigno ma sempre grosso e non filtrato, due sottaceti bruschi come il diavolo e una pagnotta di casereccio e se proprio si era in lira, un’intera spianata sale grosso e rosmarino… così si beve di più e si sta in allegria. Pieve del Pino un’osteria piccola piccola con la chiesa vicino che non si sa mai… era la residenza estiva per quelle giornate in cui a Bologna non si muoveva una foglia e l’afa ti faceva sudare la lingua in bocca. Oppure l’Osteria di Badolo dove la brezza saliva lieve trai colli ma l’oste non gradiva si facesse “troppo casino”. Ma per andar sui colli ci volevano i motori che all’epoca erano catorci immondi che la salita la tolleravano il giusto poi spingevi, oppure ci voleva la macchina, in sei su una 500 Fiat primo modello, quella con la capotta in tela sempre rigorosamente rappezzata col mastice e dove l’acqua non bolliva mai ma la ventola frullava con orrendo sferragliare e le portiere controvento erano ancora un progetto da venire.

“Ma la gente che ci andava a bere fuori e dentro è tutta morta…”. Mica vero: io c’ero e anche “Moschetto” e il “Colonnello” e il “Prichettino” e il “Moretto” e anche la Farello e Paolo di Vito e il Maestrone. Insomma eravamo quasi tutti lì sudati ma sul pezzo, duri alla meta ma insieme e, ciò che più ci univa, tutti senza una lira. Il Maestrone, al secolo Francesco Guccini, aveva una sua parola di veritas: “Ragazzi se c’abbiamo mezzo pacchetto di MS, un fiasco di vino e una chitarra si fa festa tutta notte”. “Moschetto”: al secolo Umbertone Faedi, giornalista alle primissime armi nonché road manager “per amicizia del Maestrone”, storico della storia del costume e del mal costume sempre pronto ad una partitella. Il “Colonnello” che un pacchetto di quelle buone lo rimediava sempre ma appariva solo dopo la mezzanotte. Il “Prichettino”, al secolo Giulio Predieri, giovanissimo capo redattore del Carlino che ci raggiungeva sempre con “al zurnel” fresco di rotativa. Insomma se alla mezza non eri da Vito voleva dire che c’era da preoccuparsi. Se si era in grana la sera si portava la ragazza al cinemino “dal prete” poi la si accompagnava sotto casa e via di corsa da Vito dove i ragazzi erano già al tavolo per il tressette spareggio briscola 31. E dove la trattoria si stava lentamente svuotando visto che il grido di guerra era già stato lanciato – “Signori si chiudeee” – dal vecchio Vito, papà di Paolo, che biassando la dentiera si aggirava tra gli ultimi avventori con l’occhio attento puntato su quei giovani lesti di gamba che avrebbero volentieri pagato il conto con una fuga modello Livio Berruti.

“Chi se n’è andato per età, chi perché già dottore o insegue una maturità e fa carriera che è una morte un po’ peggiore…”. Di maturità se n’erano saltate parecchie, erano gli anni della contestazione, della liberazione sessuale, delle infinite discussioni sociali e politiche del femminismo e dei soli 2 diversi tipi di vino, il bianco e il rosso. Così come all’osteria della Balla dell’Oca, qualche gradino sotto la strada, un odore di mosto e di toscano che se anche non avevi da fumare certo non andavi in astinenza. Ma quella era un ripiego perché era il nido dell’omologa Balla Universitaria, notoriamente non troppo social popolare e dove l’eskimo non era abito gradito. Ma noi avevamo anche un portabandiera blasonato, il Conte Momi De Zorzi che per sua ammissione era nato “col culo nel ragù”. Proprio lui che lasciata dopo il fatidico, quanto involontario “sì” la sposa sui gradini della chiesa scomparve con noi amici per una settimana di impegni improrogabili quanto nobili: il torneo di Tarocchino Bolognese del quale era maestro incontrastato. Persino Guccini gli arrancava con difficoltà alle calcagna nelle partite più serie. “Hai sbagliato a calare porca puttana. Io c’ho in mano tre figure e ora dove me le metto, coglione?”.

Ma era sempre la chitarra a placare gli animi: su quello strumento da poche lire è nata “La Locomotiva” che come un “mostro d’acciaio divorava la pianura…”.

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