Home Dal giornale Aperto il “cantiere” delle pensioni: è la riforma delle riforme

Aperto il “cantiere” delle pensioni: è la riforma delle riforme

da Daniele Bartolucci

La riforma delle pensioni entra finalmente nel vivo. Nelle scorse settimane, infatti, si è aperto ufficialmente il “cantiere”, con i primi incontri tra il Governo, le categorie economiche e le parti sociali, con l’obiettivo dichiarato dal Segretario alla Sanità di chiudere i lavori entro l’anno. “E’ una delle priorità su cui abbiamo posto l’attenzione da tempo”, spiega il Segretario Generale di ANIS, William Vagnini, “perché il sistema attuale non è sostenibile né economicamente, stante il saldo negativo tra entrate e uscite, né socialmente, visto che rischia di scaricarne il peso, oltre che sul Bilancio dello Stato, soprattutto sulle future generazioni di lavoratori”.

I NUMERI E LE PROIEZIONI

Un dato su tutti: le pensioni erogate nel corso del 2020 hanno sforato quota 12mila.  Una crescita notevole, se si considera che dieci anni fa, nel 2010, erano poco più di 9mila. Nel frattempo, però, i contribuenti, ovvero i lavoratori occupati (subordinati o autonomi che siano) non sono aumentanti in proporzione, portando il rapporto tra numero di occupati e pensionati da 2,32 del 2015 a 2,19 del 2019.

“Prima di elaborare soluzioni e interventi”, spiega Vagnini, “abbiamo chiesto nuovamente di condividere dati aggiornati, ma siamo tutti consapevoli che la situazione rispetto alle ultime analisi non è certamente migliorata. Le proiezioni elaborate nel corso degli ultimi anni dai diversi Governi e dallo stesso gruppo tecnico incaricato anche dall’attuale Esecutivo, sono molto preoccupanti: si parla dell’esaurimento della riserva tecnica in un decennio e un disavanzo tra contributi incassati e pensioni erogate che potrebbe aumentare esponenzialmente. Per questo occorre intervenire urgentemente per riportare su livelli di sostenibilità tutto il sistema”.

I PUNTI CRITICI: ETÀ E CONTRIBUTI

“Se il rapporto lavoratori/pensionati è diminuito costantemente negli ultimi anni”, avverte Vagnini, “è perché sono purtroppo peggiorati entrambi i fattori. Il numero dei pensionati, infatti, aumenta di anno in anno, mentre il numero di lavoratori non segue la stessa dinamica e anche se lo facesse, difficilmente compenserebbe il differenziale, a meno che non pensiamo ad una forza lavoro che da 20-22mila unità passi in pochi anni a oltre 30mila. A questo sbilanciamento consegue anche la dinamica economica, perché i nuovi pensionati, grazie all’aumentata aspettativa di vita, avranno in genere garantita la pensione per molti più anni di quanti hanno sostanzialmente pagato con i propri contributi. Stiamo parlando nel caso di 60enni, di 20-30 anni di pensione, quando con l’attuale sistema retributivo, hanno versato contributi bastevoli a coprirne circa 15. E’ chiaro che questo sistema non è sostenibile, né oggi né in prospettiva. Anche per questo, la scelta di passare finalmente al contributivo va valutata con obiettività”.

“ENTRATE: AUMENTARLE MA CON PRUDENZA”

“In attesa dei dati aggiornati”, premette Vagnini, “siamo comunque consapevoli che il livello di contribuzione attuale non permetterà di sostenere l’impianto nel lungo periodo, quindi sicuramente occorrerà aumentare il capitolo di entrata. In tal senso, oltre ad una migliore gestione del patrimonio, capace di garantire rendimenti migliori degli attuali, si dovranno compiere delle scelte precise anche sulle aliquote contributive. Abbiamo già detto che lo sviluppo economico deve essere un obiettivo di qualsiasi intervento, a maggior ragione per una riforma che coinvolge trasversalmente diversi ambiti, dal mondo del lavoro a quello previdenziale, fino a quello bancario e finanziario: per questo motivo anche tali scelte andranno calibrate in maniera tale da non penalizzare le imprese, perché si otterrebbe l’effetto contrario a quello auspicato”.

Nello specifico”, avverte Vagnini, “va considerato che già oggi le nostre imprese hanno un costo del lavoro più alto rispetto ai loro competitor europei e in particolare italiani. Nello stesso tempo, con l’avvento dell’ICEE, le aliquote che attualmente coprono gli assegni familiari o altri strumenti potrebbero risultare oltremodo capienti e quindi una parte di esse potrebbe venire trasferita ai fondi pensione”.

L’altra leva ipotizzata dai tecnici potrebbe essere l’utilizzo del TFR per potenziare il FONDISS, che è per ora l’unico sistema a capitalizzazione puro e su cui ci sono ottime prospettive, a patto di renderlo più forte anche a livello patrimoniale, anche permettendo e agevolando fiscalmente la contribuzione volontaria, come richiesto dal Comitato Gestore più volte.

INTERVENTI A BREVE E LUNGO TERMINE

Molti interventi, in verità, sono già stati ipotizzati nelle precedenti analisi, come ricorda Vagnini, “ma non tutti avranno lo stesso impatto nel tempo. Il passaggio ad un sistema contributivo, ad esempio, avrà effetti nel lungo periodo, mentre un aumento dell’età pensionabile, unito alla nuova ‘quota 103’, potrebbe dare un po’ di respiro già nei primissimi anni della riforma. A questo, però, va abbinato un deciso cambio di approccio ai prepensionamenti: pur riconoscendo la validità di questi strumenti in talune situazioni, sia pubbliche che private, il costo non deve ricadere sui fondi pensione, bensì come altri interventi decisi dal legislatore, sulla fiscalità generale”.

Un altro punto di discussione riguardo all’età, è quello dei pensionati-lavoratori: “Il divieto imposto ai pensionati è un retaggio del passato, superato ormai da tutti i sistemi previdenziali moderni, perché sono migliorate le condizioni di lavoro e soprattutto le condizioni fisiche e di salute delle persone. Moltissimi pensionati sarebbero ancora in grado di svolgere mansioni lavorative ovviamente escludendo quelle usuranti, ma soprattutto, vorrebbero farlo, ma gli è impedito dalle norme. Concedere questa possibilità dovrebbe portare, con un calcolo premiante, anche ad una maggiore contribuzione, che è uno degli obiettivi principali della riforma in discussione”.

Ulteriore punto di attenzione è quello riguardante i manager, tallone d’Achille del sistema previdenziale sammarinese da sempre: “Il tetto pensionistico non è solo un anacronismo, ma un limite enorme per tutte le aziende che ricercano figure di alto profilo per ricoprire i ruoli di vertice delle proprie strutture, perché li penalizza eccessivamente. Il principio della solidarietà non può infatti esplicitarsi attraverso un tetto massimo, ma tramite la più equa progressività delle aliquote, secondo la regola aurea per cui chi più guadagna, più contribuisce. Ciò non garantirebbe solo un’entrata maggiore perché si chiederebbe un’aliquota più alta superate certe soglie di reddito, ma anche un aumento di competitività per le imprese e tutto il sistema economico”.

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