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Teatro, visto per voi a Santarcangelo Festival 2050: “L’abisso” di Davide Enia

da Redazione

Una rete da striscio lanciata nei fondali: la macrostoria, quindi l’immigrazione e la gestione politica degli sbarchi, nel sottofondo, e poi la grande microstoria, quella dei singoli, delle terre lasciate alle spalle, dei timori per il presente e delle incognite per il futuro.

Davide Enia Abisso1 PREFERITA

 

di Alessandro Carli

 

RIMINI – Il filo rosso – rosso sangue – è sempre lo stesso, e anche se sono passati già diversi anni, l’intensità non è stata minimamente scalfita: il tempo e – in questo caso il mare, la salsedine, le onde – non hanno “bruciato” ma preservato i colori. Come per il monologo “Schegge” – presentato al Festival di Santarcangelo nel 2003, prima prova del doloroso “Maggio ’43” andato poi in tournée nel 2004 – anche ne “L’Abisso” Davide Enia prosegue nel recupero di storie poco note al pubblico ma che hanno una straordinaria dignità.

Il monologo, impreziosito dalle musiche “sicule” di Giulio Barocchieri e ospitato alla Corte degli Agostiniani il 14 luglio è un faro acceso nella tempesta di Lampedusa: esattamente quello che serve a Santarcangelo Festival 2050, edizione “Covid-19” che spera e auspica un “Futuro Fantastico”. Lo stesso di chi ha visto, o si è affacciato, sulla voragine della morte. Forte del Premio UBU 2019 per il “migliore nuovo testo italiano o scrittura drammaturgica”, la pièce è una prova cristallina di forza, narrazione e pathos. Un lavoro muscolare, quello dell’attore palermitano, che si inserisce nel solco profondo della sua tradizione drammaturgica, quella dei “cunti”: scena minimalista e voce, o meglio, un intreccio di storie che si abbracciano, si sfiorano, dialogano per poi cercare la propria traiettoria. Al centro, come già accaduto per il meraviglioso “Italia-Brasile 3-2”, la famiglia, il nucleo sociale primario, il porto di partenza. Davide Enia, come sempre, accompagna il pubblico verso l’isola, verso quel luogo in cui lo stesso “auttore” ha trascorso due anni a raccogliere le testimonianze. Dall’abisso riemergono, come in una Spoon River capovolta e opposta, le ombre delle persone: uomini, soprattutto, adulti e giovani. Un sommozzatore gigante che stringe un bimbo al petto e piange. Un figlio, Daviduzzo (Enia) che scopre la voce del padre (ex chirurgo in pensione) attraverso il suo silenzio. Lo zio Beppe, malato di cancro ma aggrappato alla vita con la tenacia delle cozze sugli scogli. I conti crudi della vita: davanti a un gruppo di tre persone che sta annegando e poco più in là una giovane mamma con il suoi piccolo, chi salvi? Tre è più di due…

Una rete da striscio lanciata nei fondali: la macrostoria, quindi l’immigrazione e la gestione politica degli sbarchi, nel sottofondo, e poi la grande microstoria, quella dei singoli, delle terre lasciate alle spalle, dei timori per il presente e delle incognite per il futuro. Le paure dei pescatori davanti a un morto – caricarlo a bordo significa rischiare il fermo della barca per un mese -, e poi Vincenzo, il custode del cimitero di Lampedusa che per raggiungere una piccola imbarcazione che conteneva dodici giovani senza vita e in stato avanzato di decomposizione si infila la mentuccia nel naso per sconfiggere l’odore. Individui quindi, che a incastro – davvero eccezionale la capacità di Enia nel trovare le forme giuste senza mai forzare la mano – vanno a comporre un puzzle collettivo. Non quello di un’isola o di un mare: quello dell’Europa.

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