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“Penso che qualcuno dovrebbe essere in grado di fare tutti i miei dipinti per me”

da Redazione

Nel 1967 Andy Warhol portò alla sesta Biennale d’arte del Titano di Argan la “Sedia elettrica”. Alberto Boatto disse a proposito: “Fa tanto America quanto la Statua della Libertà all’ingresso del porto di New York”.

andy warhol little electric chair

 

di Alessandro Carli

 

Dal 1962 Andy Warhol abbandona la manualità pittorica a favore di procedimenti meccanici, in genere la serigrafia trasferita su tela, con cui rappresenta una serie di personalità assai note come Marilyn Monroe, Elizabeth Taylor, Jacqueline Kennedy, Elvis Presley e, accanto a queste, le immagini pubblicitarie più diffuse, tra cui la Campbell’s Soup, o i reportage cronachistici di incidenti stradali.

 

IL CAMBIO DI PASSO


Andy Warhol annunciò il suo disimpegno dal processo di creazione estetica nel 1963: “Penso che qualcuno dovrebbe essere in grado di fare tutti i miei dipinti per me” disse al critico Gene R. Swenson.

Si allontanò così dal ruolo mitico assegnato all’artista espressionista astratto, che si vedeva come una figura eroica da solo in grado di trasmettere la sua visione poetica del mondo attraverso l’astrazione gestuale. Non sappiamo se il debutto di questa nuova dimensione avvenne proprio a San Marino, ma di certo il tempo tra il suo proclama e la sua partecipazione alla sesta e ultima Biennale Internazionale d’Arte della Repubblica di San Marino “Nuove tecniche d’immagine”, presieduta da Giulio Carlo Argan nel 1967, fu davvero ridotto.

Il padre della Pop Art portò sul Titano la “Sedia elettrica”, un’opera del 1964. In essa si è tentato spesso di leggere una denuncia della condanna a morte, ma come si è notato più volte, il commento è programmaticamente assente dalle opere di Warhol, e se è vero che il suo lavoro rende visibile ciò che normalmente la percezione desensibilizzata tende a non notare, è vero anche che la ripetizione continua della stessa immagine ne fiacca le potenzialità corrosive. Piuttosto, nota bene anche Alberto Boatto, la sedia elettrica “fa tanto America quanto la Statua della Libertà all’ingresso del porto di New York”.

E Andy Warhol ama profondamente l’America, nelle sue debolezze e nelle sue laceranti contraddizioni.

Ai tempi Andy Warhol viveva a New York City. L’argomento sedia elettrica/pena di morte era un argomento di per sé già controverso da tempo, ma all’epoca, nell’onda dei movimenti culturali, lo era ancora di più. Ed è in questo contesto che la sedia elettrica diventa per la prima volta un oggetto dell’immaginario comune.

 

L’OPERA “SOCIALE”


Una descrizione minuziosa e precisa la dà il sito della Tate Modern di Londra. La “Sedia elettrica” è costituito da una tela di medie dimensioni che è stata serigrafata con vernice acrilica argento.

Al centro della tela è raffigurata una sedia elettrica non occupata, collocata in una stanza vuota, e la sedia ha una struttura con schienale alto, oltre a cinturini in pelle ai suoi piedi e cinghie e fibbie più lunghe ai lati. Un cavo che fuoriesce da sotto il sedile si trova arricciato davanti alla sedia.

Dietro di esso, un piccolo tavolo di legno è mostrato contro la parete posteriore e un segno appena visibile che dice “Silence” è posizionato nell’angolo in alto a destra della composizione.

Lo spazio vuoto davanti alla sedia è apparentemente illuminato, essendo saturo di vernice argentata che sfuma per suggerire ombre scure e irregolari verso i bordi della tela. La superficie dell’opera è piuttosto irregolare: la vernice argentata, che sembra essere stata applicata su uno strato inferiore di vernice verde brillante, è stata assorbita nella tela durante il processo di stampa e l’opera è stata rivestita con una seconda tela. L’adesivo del rivestimento ha parti impregnate del tessuto della tela, creando un effetto increspato. L’opera è firmata e datata sul verso.

La “sedia elettrica” fu quindi prodotta nel 1964 nello studio di Warhol a New York. All’inizio degli anni ’60, Warhol iniziò a stampare a mano immagini su tela e a tradurre questa tecnica su carta.

Le immagini sono state stampate con colori monocromatici e, secondo la gallerista Frayda Feldman e l’editore d’arte Jörg Schellmann, sono state proiettate in un modo “che ha conservato la granulosità e l’immediatezza delle immagini dei mass media su cui si basavano” (Feldman e Schellmann), creando imperfezioni e variazioni in ogni opera in modo tale da mantenere una qualità artigianale.

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