Home categorieCultura Visto per voi a teatro: “Riccardo3” di Enzo Vetrano e Stefano Randisi

Visto per voi a teatro: “Riccardo3” di Enzo Vetrano e Stefano Randisi

da Redazione

I due Maestri non si sono limitati a confermare quanto già si sapeva ma hanno fatto un ulteriore passo in più. Narcisista, regista, affabulatore, il re scrive un scena una straordinaria recita dei contrari.

Riccardo3 foto di Luca Del Pia 5 - Enzo Vetrano b

 

di Alessandro Carli

 

RIMINI – Il “dubbio” che Enzo Vetrano (foto di Luca Del Pia) e Stefano Randisi avessero una certa dimestichezza con il verbo di William Shakespeare si era fatto largo, con nitida e quasi accecante potenza scenica, nel meraviglioso Mercante di Venezia, pièce portata anche sulle assi del teatro Novelli assieme a Le Belle Bandiere quasi 20 anni fa.

Con Riccardo3, passato al Galli il 30 gennaio per un’ora e 25 minuti senza intervallo, i due Maestri non si sono limitati a confermare quanto già si sapeva (e cioè che sono quello che è stata, a suo tempo, la Compagnia dei Giovani: una pietra miliare) ma hanno fatto un ulteriore passo in più. Sulla scia della loro poetica scenografica – ovvero quella di trasportare in una nuova “scatola” un testo “classico” per dargli una nuova vita e una nuova dimensione – i due, a cui si è aggiunto l’ottimo Giovanni Moschella, tradiscono la reggia quattrocentesca del Bardo e trasportano il dramma – scritto da Francesco Niccolini e liberamente ispirato al Riccardo III di Shakespeare e ai crimini di Romand – in una dimensione più contemporanea, asettica e dolorosa: quella di un ospedale.

Qui Riccardo3, antenato o nipote di Enrico IV di Pirandello, vive gli ultimi giorni della sua vita, “costretto” e recintato dalle pareti di una “stanza della tortura”: pazzia per pazzia, unico strumento di sopravvivenza per chi si sente estraniato dalla società in cui vive e dai suoi valori convenzionali e spesso falsi, il re spalanca la sua folle “stanza dell’essere” in cui i personaggi si sentono chiusi.

Se in entrambi i regnanti i fatti sono già avvenuti, la differenza tra due “fool” va ricercata nella coscienza della malattia: il “King” del Nobel di Girgenti gioca a fare il matto – la sola modalità che ha per tenere in vita la carnevalata e quindi se stesso -, l’antieroe di Francesco Niccolini invece è più umano. Riccardo, inserito all’interno di un allestimento contenuto ma efficace – in scena un letto, uno specchio, una sedia a rotelle come trono e una vetrinetta piena di teschi – ha già deciso di morire (Enrico IV invece no) e quindi racconta come dovrebbe essere la sua fine, la architetta dettagliatamente e infine la raggiunge.

I fantasmi che galleggiano sopra le teste di Enrico e di Riccardo hanno pesi e misure diversi. Medesima invece è l’ombra che si allunga su di loro e che si fa portatrice di voci e immagini, volti e scheletri. Ossimoricamente, quindi, di vita scenica.

L’operazione di trasloco si rivela indovinata: il testo drammaturgico (e scenico) porta gli istinti più bassi e sinistri e il fascino del malvagio – topoi tipici del teatro scespiriano – all’interno di un istituto psichiatrico. Lì dentro i tre attori ricreano l’abito di Arlecchino, cucendo con precisione e attenzione al dettaglio ogni respiro. Una macchina scenica che abbatte la quarta parete e scende come un’onda (emotiva) sino all’ultimo posto del Galli (in platea, ad assistere allo spettacolo, anche l’attore Alessio Boni), risalendo poi le scale per raggiungere la piccionaia.

Narcisista, regista, affabulatore, Riccardo3 (un cristallino e potentissimo Enzo Vetrano) scrive sul palco una recita al contrario: se Enrico IV deve travestirsi da Enrico IV per sembrare credibile (a se stesso e a chi partecipa al carnevale), qui la storia viene evocata solo dalle battute e dai nomi dei personaggi. Gli abiti dei protagonisti, piuttosto contemporanei, creano un effetto di rottura, dando ancora più vigore, in un gioco di contrasti, al piano tragico del reale inglese. Servirà una puntura, un’iniezione quindi, per porre fine alla sua esistenza e permettere, a chi è rimasto in vita, di poter vivere.

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