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Visto per voi a teatro: “La Valle dell’Eden” diretto da Antonio Latella

da Redazione

È un lavoro di esfoliazione, quello praticato dal regista, un teatro cioè che predilige la forza della parola e dei suoni a quello dell’immagine.

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di Alessandro Carli

 

BOLOGNA – Il sipario aperto accoglie il pubblico. Una scelta poetica corretta: il Paradiso – o l’Inferno – non hanno ingressi, muri di separazione, tendine che “staccano” un pre da un post. Le luci dell’Arena del Sole annullano il classico buio in sala, abbattendo di fatto la quarta parete. Si apre così “La Valle dell’Eden”, il nuovo spettacolo-kolossal diretto da Antonio Latella e prodotto da Emilia Romagna Teatro Fondazione assieme al Metastasio di Prato e allo Stabile dell’Umbria che ha debuttato in prima assoluta mercoledì 6 novembre: un tavolo scarno, di legno, qualche sedia, tre attori di spalle, immobili o forse congelati, che aspettano il “gong” per dare avvio a un lungo incontro di “pugilato linguistico e sociale”.

Suddiviso in due atti che a loro volta sono ulteriormente “tagliati” in due tempi (al primo capitolo, 1 ora e 10 minuti – intervallo – 1 ora e 18 minuti, seguirà il secondo, in programma dal 13 novembre di tre ore e 10 minuti più intervallo), “La Valle dell’Eden” mette in scena le parole (la soprattutto la storia) dell’omonimo libro di John Steinbeck, concentrandosi – perlomeno nel primo capitolo – sull’eterna e “mitica” rivalità tra due fratelli.

Scenografia semplice ed essenziale – oltre al tavolo e le sedie, solo un fondale nero che a metà del primo atto lascerà poi il posto a una “staccionata” di legno, limen metaforico di una separazione tra un “dietro” e un “davanti lì dove il “dietro” è il pensiero e il “davanti” è l’azione visibile agi occhi -, spogliata cioè di tutti quegli orpelli teatrali che non sono funzionali al racconto. Al regista Antonio Latella interessano le relazioni sociali, quelle descritte ne “Il ritorno del racconto di Caino e Abele” nel “giardino dell’Eden”, ma “demitizzate” dall’ombra biblica senza per questo allontanarsi troppo dai protagonisti dell’Eden cristiano: Caino e Abele per lui sono Charles e Adam, due fratelli piantati a cavallo del Novecento in una terra che è un po’ statunitense ma anche desolatamente russa.

L’adattamento si concentra sul percorso di vita di Adam Trask, figlio di un padre che lo costringe ad arruolarsi e andare in guerra, fratello in disputa nell’affrancamento dai legami familiari, poi marito desideroso del suo Eden, infine egli stesso padre di due figli. La storia attraversa tre generazioni (nel passaggio di secolo tra ‘800 e ‘900) e si svolge per lo più nella valle del Salinas, in California, sullo sfondo dell’utopica corsa all’Ovest.

È un lavoro di esfoliazione, quello praticato da Latella, un teatro cioè che predilige la forza della parola e dei suoni a quello dell’immagine: il rimbombo degli oggetti “picchiati” – dalla scarpa su tavolo di uno dei due fratelli a quello di un sasso –, il tono della voce (amplificato dai microfoni utilizzati dagli attori in scena), un piedi “scarpato” e poi nudo che viene battuto sulle assi del teatro.

Adam, sposato con una ragazza “matta” o “malata” che ha una relazione sessuale piuttosto sincopata con Charles (bella la scena della copulazione robotica e priva di slancio, foto di Brunella Giolivo), si aggrappa al tradimento per celare la solitudine che attraversa la sua vita. Pirandellianamente emergono così non tanto una serie di risposte ma piuttosto ulteriori domande. Sul significato della vita in prima battuta, sulla direzione da prendere, ma anche sulla modernità saviniana del mito classico.

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