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Ora “facciamo che…” ho scritto un lungo brivido?

da Redazione

Dopo “Il numero 5” Gabriele Nanni torna con “L’impero invisibile”. Una storia senza social e Play station è possibile: l’ha scritta un riminese.

Nanni libro

 

di Simona Bisacchi

 

Una maratona horror nella città vicina è un ottimo motivo per marinare la scuola. O almeno lo è per Richie, Mash e Darry, che nella primavera del 1966 – dopo attente valutazioni e calibrate riflessioni – decidono di saltare il test della McConnell e andare a vedere “La lunga notte dell’orrore”. Come l’innocente scelta di un film possa portare tre ragazzi di tredici anni al centro di un delitto del Ku Klux Klan, ce lo racconta “L’impero invisibile” (Pelledoca editore) dello scrittore riminese Gabriele Nanni, già noto per il suo “Il numero 5” (Piemme) con cui vinse il premio letterario “Il Battello a vapore”.

Un mistery rivolto ai ragazzi, dove l’autore racconta tempi crudeli – non tanto lontani – con la leggerezza di chi sa usare una penna felice, lasciandoti senza fiato per la paura e per le risate.

 

Come è nata l’idea lo racconta l’autore, Gabriele Nanni.

 

“Un giorno mi è venuta questa immagine di tre ragazzi di 13 anni, che giocavano a basket in un vicolo con una palla di giornale inumidita, la parte alta di una scala antincendio era il canestro. Si trovavano negli Stati Uniti, da come erano vestiti ho capito che erano gli anni Sessanta. Poi mi sono accorto che era mattina ed era primavera. A questo punto mi sono fatto delle domande: perché non erano a scuola? Cosa stavano facendo? E mi sono risposto: facciamo che hanno marinato la scuola, facciamo che amano l’horror. Il gioco del ‘facciamo che…’ mi ha permesso di ricostruire la loro storia. Fino ad arrivare al Ku Klux Klan, un nemico credibile, che fa paura, e su cui non ci sono molti libri per ragazzi”.

 

Quanto tempo e impegno ha richiesto il lavoro di documentazione storica?

 

“Ci sono voluti circa tre mesi. Ho consultato saggi ma soprattutto romanzi, perché rendono di più l’atmosfera, per esempio i libri di Joe Lansdale sono stati utilissimi per le informazioni sul Ku Klux Klan. Un altro riferimento importante è stato Stephen King, in particolare ‘The body’, ‘Stand by me’ nel suo adattamento cinematografico, ambientato proprio nel Maine negli anni Sessanta. Questo è uno di quei libri che c’è e ci sarà sempre in quello che scrivo, perché per me ha rappresentato una folgorazione, soprattutto per il modo naturale in cui parlano i ragazzi. Così come ‘It’, che è una sorta di ‘Stand by me’ all’ennesima potenza. Inoltre, ho letto tanti giornali dell’epoca su Google paper, anche per capire quali film si guardavano, che prodotti si compravano”.

 

Le avventure dei ragazzi si svolgono in contemporanea a un evento che ha rivoluzionato il basket: nel campionato universitario trionfano i Texas Western Miners, la prima squadra della storia con giocatori di colore. Lo sport, che appassiona tanti ragazzi e non solo, quanto contribuisce all’integrazione?

 

“Questo è stato un evento che ha cambiato totalmente il basket: fino a quel momento accadevano anche episodi di giocatori di colore che venivano tenuti apposta in panchina perché il miglior marcatore della squadra doveva essere bianco. Dopo la vittoria dei Texas Western, è cambiata la concezione dello sport americano, anche se lì per lì non lo avevano capito. Lo sport ha contribuito all’integrazione e contribuisce tutt’oggi. La squadra è il simbolo di una comunità che cresce insieme. I Texas Western hanno dovuto affrontare insieme problemi, minacce, e insieme hanno fatto la storia”.

 

Ci hai dimostrato che raccontare ai ragazzi una storia senza social e Play station è possibile. Come sei riuscito a trovare il punto di contatto con loro, pur affrontando un tempo e un modo di comunicare così diverso da quello che conoscono?

 

“Penso che nel profondo i ragazzi siano sempre uguali quando si parla di sentimenti, di amore, di paura, o di amicizia. Cambia il contesto: ai tempi di Oliver Twist i ragazzi lavoravano in fabbrica e oggi si danno appuntamento via Facebook. Quando scrivo cerco di creare bene il luogo, l’ambientazione, per poi far leva su ciò che accomuna i ragazzi di ogni generazione. Quando parlo dei ragazzi parlo dei miei amici di allora, perché le cose che si dicono, gli scherzi che si fanno sono sempre quelli, anche se noi parlavamo di Italia 90 e non di Nba. La mia fortuna è che ricordo bene quello che facevo con gli amici negli anni Ottanta”.

 

Scritto tutto d’un fiato, in quegli orari improbabili che solo un neo papà conosce, “L’impero invisibile” è costato a Gabriele Nanni un isolamento finale di due settimane.

Possibile solo grazie al contributo fondamentale della compagna Catia.

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