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Visto per voi al teatro “Alighieri”: “Il piacere dell’onestà” di Pirandello

da Redazione

Manifesto dell’ipocrisia più vuota in cui il “doppio” si trasforma in un gioco delle parti (però) irrisolto, la mise en scene “arriva” con forza sino all’ultima fila.

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di Alessandro Carli

 

RAVENNA – Medesimo espediente – ed è quasi naturale pensare che nella testa illuminata di Luigi Pirandello un’idea di “concept dramma” possa essere apparsa, perlomeno in una fase di stesura – ma con sfumature diverse. Quasi a voler dare alle scene alcune angolature diverse (ma con medesimi, straordinari risultati metateatrali) di un “contratto pubblico” – impossibile parlare di “istituzionalità” pensando al Nobel di Girgenti e al rapporto con la moglie -, esiste un filo rosso sottile che avvicina, nella diversità, tra capolavori: “Pensaci Giacomino”, “Ma non è una cosa seria” e “Il piacere dell’onestà”, oggetto di indagine (e di risposta scenica realizzata in un atto unico di un’ora e 45 minuti) della regista Liliana Cavani che ha scelto di affidare a Geppy Gleijeses e Vanessa Gravina i ruoli dei protagonisti principali.

Lo spettacolo, che ha fatto tappa al Teatro Alighieri di Ravenna dal 28 al 31 marzo, alza il velo di Maya sugli abissi sociali e sulla necessità di “un’apparenza dignitosa” da dare a chi osserva. Al centro, elemento totemistico di sottofondo (il testo è quasi un pre-testo per parlare di relazioni familiari), quell’espediente – già utilizzato, come detto, in altre opere – del falso matrimonio su cui si confrontano personaggi, costretti a togliersi la maschera dietro la quale hanno ingannato se stessi e gli altri.

A differenza del Ciampa de “Il berretto a sonagli”, qui Pirandello (e la regista l’ha capito alla perfezione) agisce di sottrazione, giocando solamente su due corde, quella dell’onestà formale (quindi nei rapporti sociali) e quella dell’onestà sostanziale, quella cioè dei sentimenti.

In scena Angelo Baldovino (Geppy Gleijeses), un personaggio dalla moralità accomodante, accetta per interessi economici di sposare Agata (Vanessa Gravina), l’amante incinta del marchese Fabio Colli (interessante e funzionale alla mise en scene il “taglio” caratterizzato e lievemente sopra le righe dato al personaggio), che non la può sposare perché già ammogliato. Naturalmente si tratterà di un matrimonio di facciata: ognuno continuerà tranquillamente a farsi i fatti propri. Ma le cose non vanno come previsto. Angelo, che per la prima volta si sente investito da una grave responsabilità, prende tutto molto sul serio. Aiuterà la ragazza lasciata sola, darà il suo nome al nascituro e sarà utile anche allo stesso marchese Fabio, vittima di una moglie che lo tradisce. Angelo si sente investito di una missione che lo riabiliterà di fronte agli altri e ai suoi stessi occhi: “Ecco qua: uno ha preso alla vita quel che non doveva e ora pago io per lui, perché se io non pagassi, qua un’onestà fallirebbe, qua l’onore di una famiglia farebbe bancarotta: signor marchese, è per me una bella soddisfazione: una rivincita!”.

Baldovino si batterà rigorosamente per l’onestà: ha la possibilità di riscattare la sua vita finalmente con un ideale da seguire e Agata, più madre che amante (e amata), allontana Fabio. Il marchese disperato vuole sbarazzarsi del “traditore” e organizza una società nella quale fa entrare Angelo, sperando che questi si comporti disonestamente, e che quindi venga cacciato e perda la sua fama di uomo onesto. Angelo, invece, non solo dà prova di rettitudine, ma smaschera di fronte ad Agata la trappola che il marchese gli ha teso e, nonostante tutto, per il bene del bambino si dice disposto a farsi accusare di furto, purché a rubare realmente sia Fabio.

Sarà la stessa Agata a pregare Angelo di restare accanto a lei, ormai conquistata dalla sua onestà.

Anche qui l’eterno conflitto pirandelliano tra apparenza ed essenza, tra forma sociale e identità reale, tra menzogna e verità viene messo in scena per raccontare l’umana resistenza davanti ai capricci della borghesia, che impone “maschere” che alla fine, come nella vita, si incollano sul viso.

Manifesto dell’ipocrisia più vuota in cui il “doppio” si trasforma in un gioco delle parti (però) irrisolto, questo “Piacere dell’onestà” – che in alcuni passaggi risulta forse un po’ troppo formale, va detto, ma ben a fuoco sul “dramma” dei “ruoli” e delle convenzioni – “arriva” con forza sino all’ultima fila del teatro Alighieri, e conferma – semmai ce ne fosse bisogno – la straordinaria attualità della poetica “familiare” di Pirandello.

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