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Riforma pensioni: i contributi richiesti cresceranno del 3%

da Redazione

ANIS fortemente contraria per l’aumento del costo del lavoro e per la permanenza del “tetto”, che limita l’attrazione di manager e dirigenti di alto profilo.

tabella pensioni

 

di Daniele Bartolucci

 

Dall’innalzamento dell’età pensionabile alla variazione del sistema di calcolo degli assegni previdenziali, fino all’aumento delle aliquote contributive sia per i lavoratori dipendenti che per gli imprenditori e professionisti. Sono queste le direttrici su cui il Governo ha deciso di muoversi per riformare il sistema previdenziale che, come noto, è diventato insostenibile economicamente. Dopo mesi di silenzioso lavoro, l’Esecutivo ha presentato una prima bozza della riforma, anticipando la volontà di arrivare ad una legge vera e propria già prima dell’estate, scatenando le reazioni dei sindacati e delle associazioni datoriali, che non hanno preso bene questa accelerazione, anche e soprattutto per gli interventi previsti che non sono quelli che avrebbero auspicato, a partire dall’aumento della contribuzione, che doveva essere l’ultima strada da percorrere e invece pare diventata la principale.

 

ALIQUOTE PIÙ ALTE PER DIPENDENTI E IMPRESE


La novità che più ha colpito tutti è l’aumento delle aliquote contributive del 3% per i dipendenti spalmato nei prossimi 4 anni: il 2% a carico dei lavoratori e l’1% a carico delle imprese. Più l’aumento dell’aliquota unica per le categorie quali Commercianti, Artigiani, Professionisti, Agenti e Mediatori e Imprenditori, che passerà nel 2020 al 22,75%, crescendo gradualmente fino al 25% nel 2023.

Un aumento generalizzato che, come ricordano in ANIS, era stata sempre scartata come ipotesi anche nelle varie analisi tecniche del gruppo di esperti incaricato da qualche anno per disegnare la possibile riforma. “Alcune di queste idee erano condivisibili, peccato che nella bozza presentata non ci siano più (come il passaggio al contributivo), sostituite dalla prospettiva più negativa possibile: l’innalzamento delle aliquote contributive sia per i lavoratori che per le imprese. Nonostante le relazioni tecniche mettessero in guardia dal prendere questa strada, la proposta dell’Esecutivo è di aumentare del 3% in quattro anni la contribuzione per il fondo pensione (2% in capo ai lavoratori, 1% in capo alle aziende) portando il totale dei contributi ad un 37,7% nel 2023, molto vicina al livello medio dell’Italia quindi. Oltre a togliere potere d’acquisto ai lavoratori, con un probabile effetto negativo anche sui consumi, questo aumento penalizzerebbe direttamente le imprese, aumentando il costo del lavoro che già oggi, per via di un orario lavorativo inferiore, più festività e retribuzioni più alte, non rende il nostro sistema competitivo. Crediamo che questa strada sia sbagliata e abbiamo proposto di ricercare queste risorse nei residui attivi degli altri capitoli, come gli assegni familiari e le indennità di malattia, anche in vista del risparmio che si concretizzerà con la messa a regime dell’ICEE”.

 

ANIS: “VIA IL TETTO”. DUBBI SUL TAGLIO AL TFR


“Non comprendiamo”, dicono da ANIS, “la logica di ‘dare’ agevolazioni ai nuovi assunti e poi di ‘togliere’ loro parte del TFR: avremmo preferito anche in questo caso una logica progressiva nel tempo, di minore impatto anche sull’attrattività di nuove figure necessarie alle aziende. Sullo stesso tema c’è poi il mancato superamento del tetto, che invece inizialmente sembrava dovesse essere finalmente superato: condividiamo in parte il principio solidaristico di questo strumento, ma nel tempo si è dimostrato penalizzante nell’attrarre manager e dirigenti di alto profilo, creando anche diverse distorsioni. E’ indispensabile superare questo strumento, introducendo un sistema di aliquote graduali, che garantiscano comunque un’entrata ai fondi pensione e non penalizzino eccessivamente i lavoratori che percepiscono stipendi alti”.

 

IL SEGRETARIO SANTI: “NON CI SONO ALTERNATIVE”


“Si deve intervenire al più presto per evitare situazioni di emergenza nei prossimi anni”, spiega il Segretario alla Sanità Franco Santi, e “il Governo intende accelerare per garantire la sostenibilità del sistema previdenziale: l’intento è quello di arrivare entro la fine dell’estate all’approvazione di una legge che sappia introdurre correttivi adeguati e sostenibili per far partire quel percorso di riequilibrio che dovrà dare i suoi frutti nell’arco di un decennio”.

“L’equilibrio dei fondi pensione”, spiega, “è già da alcuni anni in costante e progressiva difficoltà, in conseguenza di una serie di concause, dalle più positive a quelle negative. Se è vero che siamo il Paese con la più alta aspettativa di vita, merito delle condizioni generali oltre che dell’efficiente sistema sanitario, è altrettanto vero che il rapporto fra lavoratori attivi e pensionati si è notevolmente ridotto, passando da 1 pensionato per ogni 4 occupati ad 1 pensionato ogni 2 lavoratori attivi. I conti non tornano. Ogni anno i lavoratori, dipendenti e autonomi, versano nei fondi pensione contributi per circa 125 milioni di euro, ma agli oltre 9.800 pensionati vengono erogati assegni previdenziali per quasi 165 milioni. Un divario di circa 40 milioni di euro colmato ogni anno dall’intervento economico dello Stato. I dati dimostrano che di questo passo si rischia di raggiungere il temuto punto di non ritorno”. Insomma, “dobbiamo intervenire in fretta per correggere l’andamento dei fondi pensione e riscrivere le regole, senza minare la stabilità del sistema”. “Le linee sono quelle, non possiamo inventarci nulla, credo non ci siano grosse alternative”. Per cui, chiosa Santi, “rinviare ulteriormente la riforma sarebbe una scelta irresponsabile e fortemente penalizzante per la nostra collettività”.

 

SINDACATI CONTRARIATI E ORMAI SUL PIEDE DI GUERRA


“E allora sono un irresponsabile”, ha commentato il Segretario della Csdl Giuliano Tamagnini, prendendo spunto dalle parole di Santi, spiegando quanto non gli siano piaciuti né la bozza di riforma né il metodo del Governo: “Avevamo già detto che quello presentato l’estate scorsa non andava bene e la bozza che è stata fatta circolare è addirittura peggiorativa rispetto alla precedente. Si è partiti con il piede sbagliato, non ci si può presentare a un tavolo dopo averlo lasciato fermo per oltre tre mesi dicendo che o si fa la riforma in due mesi o si è irresponsabili. Il tema della riforma pensionistica è troppo serio perché possa essere affrontato in questo modo, così abbiamo sempre detto che noi non ci stiamo”. Sulla stessa linea Gianluca Montanari (Cdls) che l’ha definita “riforma colabrodo”, sintetizzando di fatto ciò che pensa tutta la CSU: non piace il fatto che sia stata stabilita una deadline entro fine estate per la definizione della riforma, ma soprattutto “c’è un grosso problema politico, quello dei fondi pensione investiti nelle banche”, tanto che qualche sindacalista già chiede conto se questi soldi (circa 450 milioni totali) siano ancora disponibili o meno. La bozza non piace così tanto che mette d’accordo tutte le sigle sindacali: anche l’USL l’ha definita “troppo penalizzante”.

 

UNAS: “DIFENDERE EQUITÀ E MATEMATICA”

 

“Per alcuni aspetti proposti è difficile riuscire a capire il come certe assurdità siano proposte”, attaccano da UNAS. “Delle 3 opzioni (si paga di più, si lavora di più e si prende di meno), tutte le parti si aspettavano un utilizzo ed un inasprimento delle condizioni, ma pensare a pressioni contributive senza corrispondenza di servizio è oltremodo offensivo di aspetti legati a scienze giuridiche e matematiche. Può essere possibile che un soggetto paghi il 22% per prestazioni che non ritroverà nella sua carriera contributiva? La richiesta di un versamento di solidarietà è più che comprensibile su redditi oltre i 46.000 euro. Ma una invocata solidarietà non può pesare un 22% del reddito, trasformando i contributi in una tassa da aggiungere al 17%. Un conto è tassare, altro è il tartassare”. Senza dimenticare “la pressoché mancanza di reali incentivi al restare nel mercato del lavoro”.

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