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Regina di Cattolica: Franco Branciaroli, cappesante e miserabili

da Redazione

La prima cosa che mi viene in mente è il “Jean Valjean” in bianco e nero di Moschin con Tino Carraro a vestire la cattiveria di Javert.

I miserabili 2 - ph. Simone Di Luca

 

di Teresio Troll

 

CATTOLICA – 4 di marzo 2019. Dopo due anni da “Macbeth”, Franco Branciaroli (ph. Simone Di Luca) ritorna alla Regina di Cattolica, questa volta con una montagna sulle spalle. L’attore, con Franco Però alla regia, porta in tournée l’adattamento teatrale di Luca Doninelli da “I Miserabili” di Victor Hugo. (Nota di merito: teatro pieno a confermare una stagione ben diretta e uno staff femminile eccellente).

Nascondersi… l’identità che cambia e scompare continuamente. (Ricordate? Coincidenza, ci eravamo lasciati con il Mattia Pascal). Anche se la scena è simile, torronitorrioni a far da prima scena e da quinta, l’impresa stavolta è pantagruelica. Un vero e proprio colosso della letteratura da portare in scena. La prima cosa che mi viene in mente è il “Jean Valjean” in bianco e nero di Moschin con Tino Carraro a vestire la cattiveria di Javert. Ma non puoi fare quindici puntate al Regina! Come farà il nostro “Brancialeoni”?

Non sapendo, a lui domando: “Non è idea mia. Sono stato chiamato per fare Jean Valjean. È dura. Non va più di moda far teatro ma portare film, romanzi, canzoni sulla scena. Tutto tranne i testi teatrali. Certo, tra ‘I Miserabili’ e altro, meglio questo. Doninelli l’ha ridotto, eeeh, una scheggia da 1.400 pagine!”.

Il physique du rôle ce l’ha ma che può fare? Nulla! Jean Valjean parla poco. È Hugo che parla. Hugo che era un drammaturgo coi fiocchi. Ma, come si diceva, coi romanzi è dura. Non ti va sempre liscia come, ad esempio, con Dostoevskij che è un drammaturgo mancato. Tu nel romanzo non hai personaggi ma come dice Branciaroli ‘silhouettes’. I dialoghi son pochi. Quello che ti resta è un linguaggio ambiguo. Da una parte c’è la letteratura pura e dall’altra battute elementari del tipo ‘che ora è?’ ‘Passami il pane’. “È tutta una questione di atteggiamento. Le battute non ci sono, quindi… Però questo vuole il pubblico; ti dicono: c…o finalmente ho capito la storia!”.

Lettore mio… la drammaturgia è una forma di conoscenza speciale, un meccanismo.

“Thomas Bernhard (eccolo qua!…) non ti racconta una storia. Ti trifola il personaggio. Non sai mai se ridere o piangere. Qui è come una fiction. Sette/otto scene prese dal romanzo con un filo comune e poi il bel personaggio di Eponine” (a mio avviso l’unico interessante e ben interpretato da Valentina Violo, nella foto di Simone Di Luca).

E allora devi cercare di far passare cosa? “Poche cose”, continua Branciaroli. “Soprattutto che la legge la puoi infrangere (l’inaccettabile di Javert e della sua societàguardiana) se puoi fare del bene e questo lo capisce solo chi è stato povero davvero. Povero e miserabile”. Come dirlo? “Con l’atteggiamento, la forza della figura (un vero Montecristo)”. Bisogna darla a bere. “È una sfida . È ovvio che è più facile fare l’Amleto dove, certo, puoi fare un mediocre Amleto ma mai peggio perché il testo/personaggio c’è. Qui si rischia il tonfo da Champions League”.

 

EXCURSUS 1– Saltiamo ad un altro grande romanziere. Con Nabokov si fa qualcosa a teatro? Ha scritto delle commedie (confidiamo in un ripescaggio Adelphi) e Branciaroli le aveva avute in mano per poi smarrirle… “Nabokov odiava il teatro, i dialoghi nei romanzi. Odiava Dostoevskij. Quando vedo i dialoghi – diceva – dopo la mezza pagina mi girano i coglioni. E odiava il teatro eppure ha scritto commedie ma… non fidiamoci troppo, è un mentitore”. Poi si dà una pacca sulla fronte: “Ma sì, l’ho fatto Nabokov! Lo feci utilizzando la sceneggiatura (che è comunque un impianto narrativo vicino al teatro) che lo stesso autore scrisse per Kubrick e che il regista poi non adoperò”.

 

EXCURSUS 2 – Le verità assolute sul teatro sono queste. Per Brancialeoni da sempre e per sempre valide. Verità assolute come il Topten culinario delle cappesante (le Saint Jacques direbbe Jean Valjean) condite con olio d’oliva, nein gratin (e qui il mio plauso è tutto a suo favore). Verità assolute come il troneggiare su tutto, dalla Russia di Nabokov (per l’origine si legga Georgia) alla Francia di Hugo, del vino bianco che passa da Tokaj a Friulano. Il vino da romanzo: fermo come Branciaroli sul palco, sapido, salino, che una volta si dorava negli orci sloveni per diventare, di qua da Trieste, un’ombra. Un’ombra come Javert dietro Jean Valjean, un’ombra come le quinte della scena. Come l’ombra di Bernhard ogni volta che il nostro “Brancia” appare in scena.

 

valentina violo

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