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Visto per voi a Cesena: “Storia di un impiegato” di Cristiano De André

da Redazione

Arrangiamenti più rock, pezzi più “tirati” quindi che però non abbandonano quelle atmosfere psichedeliche che attraversano tutto l’album originale (la mano di Nicola Piovani, mano benedetta e assoluta, è intoccabile e degna di essere baciata).

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di Alessandro Carli

 

CESENA – L’essenza del progetto è tutta in una battuta pronunciata a metà concerto: “Io sono un sacerdote”. Dopo queste parole, Cristiano De André ha guardato in alto. Carisport di Cesena quasi gremito, sabato 2 marzo per la tappa “sulle rive del Savio” di “Storia di un impiegato”, il concept album più “politico” scritto e registrato da Fabrizio De André nel 1973, una pietra miliare della musica italiana che Pulp Concerti Srl ha voluto “donare” al pubblico romagnolo.

Cristiano ha un cognome che potrebbe impaurire la maggior parte degli artisti ma ha anche le spalle larghe e una forza poetica autonoma, tosta. Così a un rigore filologico adottato nel seguire (ed eseguire) la scaletta dell’ellepì, ha deciso di dare il suo nome e la sua musicalità a “Storia di un impiegato”: arrangiamenti più rock, pezzi più “tirati” quindi che però non abbandonano quelle atmosfere psichedeliche che attraversano tutto l’album originale (la mano di Nicola Piovani, mano benedetta e assoluta, è intoccabile e degna di essere baciata).

Fa sorridere la recensione scritta ai tempi da Simone Dessi. Il critico musicale difatti stroncò il lavoro definendolo “un disco tremendo: il tentativo, clamorosamente fallito, di dare un contenuto ‘politico’ a un impianto musicale, culturale e linguistico assolutamente tradizionale, privo di qualunque sforzo di rinnovamento e di qualunque ripensamento autocritico: la canzone ‘Il bombarolo’ è un esempio magistrale di insipienza culturale e politica”. Fa sorridere perché, come accade ai capolavori più cristallini, anche questo concept album non fu capito sino in fondo quando uscì. Ieri (il maggio sessantottino in Francia) come oggi (la rivolta dei gilet gialli), mezzo secolo dopo, “Storia di un impiegato” è un racconto estremamente attuale. E non a caso Cristiano lo ha preso in mano e gli ha dato il suo nome. L’operazione, va detto a scanso di equivoci, funziona, eccome: funziona per chi ha visto da vivo Fabrizio, funziona per chi non ha avuto la fortuna di vederlo di persona. La rivolta, l’umanità che scende in piazza, la necessità di esprimere il proprio giudizio e il proprio disappunto: “Storia di un impiegato” è un disco senza polvere, uno scrigno che contiene – per chi lo sa ascoltare – un piccolo tesoro: “La canzone del padre”, una lama che taglia la cortina delle apparenze, uno sparo negli occhi, la condanna di un figlio a essere come il padre ma con meno sogni e che si scopre a sua volta genitore di un “ultimo figlio, il meno voluto / ha pochi stracci dove inciampare / non gli importa d’alzarsi, neppure quando è caduto / e i miei alibi prendono fuoco…” che forse, oggi, è tra i manifestanti parigini; “Verranno a chiederti del nostro amore”, occhi che cercano gli occhi quando tra gli occhi ci sono le sbarre di una prigione; “Nella mia ora di libertà”, la consapevolezza della scelta di una barricata, il bisogno di tracciare una linea di demarcazione tra chi comanda e chi subisce le regole.

Nella seconda parte del concerto – due ore e 20 minuti circa – Cristiano diventa Fabrizio: “Megu Megun”, “La domenica delle salme”, “Don Raffaè”, “Fiume Sand Creek”, “Il testamento di Tito”, “Amor che vieni amore che vai”, “Quello che non ho”, “Disamistade”, “Khorakhané (A forza di essere vento)”, “Smisurata preghiera”, “Creuza de mä” e infine “Il pescatore” con il pubblico sotto al palco e l’artista che infuoca il suo violino. Per chi vive “in direzione ostinata e contraria”, una mano che invita a proseguire il cammino.

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