Home NotizieEconomia Addio a Paolo Brera, uno dei collaboratori di San Marino Fixing nel 2010

Addio a Paolo Brera, uno dei collaboratori di San Marino Fixing nel 2010

da Redazione

Vi proponiamo il suo primo articolo, un modo per ricordarlo. Dalla redazine di Fixing le più sentite condoglianze alla famiglia e un “grazie Paolo” per i pezzi che ci hai inviato.

Fixing 01 2010 Brera Pagina 4

 

Paolo Brera, riporta in una nota l’Ansa, “è morto a quasi 70 anni per un infarto la sera del 21 febbraio mentre viaggiava sulla metropolitana di Milano”. Paolo Brera, figlio di Gianni, nel 2010 è stato uno dei collaboratori di San Marino Fixing. Nel numero 1 del nostro settimanale lo presentammo con queste parole.

 

Entra a far parte della nostra “famiglia” infatti Paolo Brera, giornalista professionista e scrittore, esperto di economia internazionale, una firma di assoluto prestigio. Paolo Brera, laureato in economia alla Bocconi, dove iniziò la sua carriera accademica come assistente, ha condotto un significativo lavoro di ricerca sui paesi del blocco comunista. Come giornalista è stato caporedattore della rivista Critica Sociale, redattore di Italia Oggi e del Secolo XIX, ed ha collaborato con alcune testate nazionali italiane, fra cui il Corriere della Sera, il Sole – 24 Ore, il Mondo e Panorama. Attualmente realizza articoli di fondo economici e di Esteri con diverse testate fra cui L’Arena di Verona e il quotidiano svizzero Corriere del Ticino. Su Fixing la sua rubrica sarà “Prima nota”.

 

Vi proponiamo il suo primo articolo, un modo per ricordarlo. Dalla redazione di Fixing le più sentite condoglianze alla famiglia e un “grazie Paolo” per i pezzi che ci hai inviato.

 

Sergio Marchionne il Maglionato non scherza. Il suo piano per Fiat-Chrysler incorpora una vision lungimirante, il cui cardine è raggiungere una produzione minima di cinque o sei milioni di autoveicoli, strappando quote ai concorrenti in modo da essere fra le case che sopravviveranno all’attuale Notte dei Lunghi Coltelli.

Non facile, ma neppure impossibile. I modelli Fiat oggi sono buoni, la bassa qualità di una volta è un ricordo, mentre il mix di prodotti e di mercati è fra i più adatti alla temperie economica dell’oggi: prevalgono le auto con bassi consumi e c’è una buona presenza sui mercati emergenti, quelli che nel 2009 non hanno neppure smesso di crescere e torneranno a premere sull’acceleratore nel 2010.

Anche il ruolo di Chrysler è importante, visto che tanto la gamma dei modelli quanto la ripartizione dei canali di vendita delle due case sono largamente complementari. L’impresa americana è chiamata a produrre 2,8 milioni di autoveicoli all’anno. Sommati ai 2,6 della Fiat, daranno l’indispensabile massa critica. Nel 2014. Oggi come oggi Chrysler attacca a una scocca solo 5,2 milioni di ruote, meno di metà dell’obiettivo. Come farà ad arrivare al target? Con l’espansione della rete commerciale, i nuovi pianali in comune con Fiat, e ventuno modelli nuovi.

Gli analisti ritengono che la vera sfida sarà quella di tenere a galla Chrysler fino a quando i nuovi modelli e l’alleanza decolleranno definitivamente. La Fiat controlla il 20% di Chrysler e può salire fino al 35% se si raggiungeranno determinati obiettivi. Una volta che la casa statunitense avrà restituito il prestito ottenuto dal Tesoro, i torinesi potranno arrivare al 51%.

Per Fiat, il piano Marchionne (illustrato lo scorso dicembre) comporta un aumento della produzione complessiva in Italia, ma la chiusura di uno degli stabilimenti storici, quello di Termini Imerese in Sicilia, che si è beccata la peppa tencia. Una diversa ripartizione della produzione, con un maggiore contributo delle fabbriche polacca e brasiliana, oltre all’acquisizione del 67% della casa serba Zastava, consentiranno al gruppo di affrontare il mercato. Quanto a Termini, è una scelta “inevitabile” per il Maglionato, secondo cui “l’unico modo per rendere competitiva quella fabbrica sarebbe spostare la Sicilia”.

Per carità. A differenza del Canada, dove pure ci sono alcune fabbriche di auto, la Sicilia si trova in una fascia climatica gradevolmente temperata, e cinque milioni di siciliani non sarebbero affatto d’accordo di spostarsi più al freddo. D’altro canto, se è vero che nella fabbrica di Termini lavora un numero molto inferiore di siciliani, tutti e millenovecento non vogliono saperne di perdere il posto di lavoro. “Siamo pronti a una nuova grande stagione di mobilitazione”, ha giurato Roberto Mastrosimone, leader di fabbrica della Fiom. E mobilitazione è stata. Per il sindacalista, “la fabbrica è stata regalata dalla Regione alla Fiat… è ora che sia restituita ai veri proprietari, gli operai e i contribuenti, e sia avviato un confronto con quelle case automobilistiche che credono in Termini”. (Quali?) L’accenno ai ‘veri proprietari’ è storicamente accurato: a suo tempo, cioè nel 1970, gli impianti furono sostanzialmente regalati dalla Regione Sicilia al gruppo Agnelli, che nel corso di tutta la sua storia ha sempre mostrato un enorme talento per farsi dare soldi di Stato, nell’ottica della solita ‘socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti’.

Marchionne non è stupido (alcuni lo chiamano addirittura Marpionne) e ha già detto di essere disposto a discutere qualsiasi “proposta di riconversione” sia con la Regione Sicilia che con gruppi privati, persino mettendo a disposizione gratis lo stabilimento, purché nessuno si sogni di chiedere che resti in attività a carico della Fiat. Gli impianti Fiat in Italia, con 22.000 dipendenti in cinque fabbriche, costruiscono più o meno lo stesso numero di auto che esce da una sola fabbrica in Polonia (6.100 dipendenti) o in Brasile (9.400). “Dobbiamo affrontare il problema di petto, ne dipende il nostro futuro”, dice il Maglionato. Dunque, dal dicembre 2011, addio Termini. Anche se nel loro insieme le fabbriche site in Italia produrranno di più: da 800.000 a un milione di autovetture all’anno contro appena 650.000 oggi.

Marchionne si gioca i suoi assi. Dice che la Fiat ha usato al massimo gli ammortizzatori sociali, però i concorrenti hanno invece licenziato senza tanti complimenti. A chi accusa la Fiat di chiedere sempre soldi allo Stato quando è nei guai ma di tenersi gli utili degli anni di vacche grasse, il manager replica che l’impresa versa alla Cassa integrazione più di quello che ricevono dalla stessa i suoi operai, che gli incentivi pubblici devono ancora essere incassati, e che il loro importo è trenta volte inferiore agli investimenti del gruppo. Tutto belletto: nessun’altra impresa italiana ha ottenuto dallo Stato più della Fiat. Ma se si troverà una soluzione equa per i lavoratori di Termini, il piano potrebbe davvero funzionare.

 

Paolo Brera

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