Home categorieCultura Visto per voi al teatro Galli: “Il berretto a sonagli” di Luigi Pirandello

Visto per voi al teatro Galli: “Il berretto a sonagli” di Luigi Pirandello

da Redazione

A distanza di quasi 15 anni Sebastiano Lo Monaco è tornato a confrontarsi con l’opera del Nobel. E lo ha fatto con uno smalto del tutto nuovo, o meglio: “stagionando” il personaggio e facendo vibrare anche altre corde oltre alle tre “celebri “di Ciampa.

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di Alessandro Carli

 

RIMINI – Sebastiano Lo Monaco è una botte di rovere. A distanza di quasi 15 anni (2005 o 2006, teatro Masini di Faenza) l’attore è tornato a confrontarsi con “Il berretto a sonagli”, l’opera che Leonardo Sciascia definì “La più perfetta commedia” di Luigi Pirandello, quella più maschilista (assieme a “Il giuoco delle parti”). E lo ha fatto con uno smalto del tutto nuovo, o meglio, “stagionando” il personaggio e facendo vibrare anche altre corde oltre alle tre “celebri “di Ciampa (elemento totemistico della commedia di costume che in fieri diventa tragedia della gelosia): quelle delle allusioni e del pissi pissi che portano il testo, in entrambi gli atti, a sfiorare registri comici di impatto.

La risata però sottende sempre la vertigine di un abisso: il tema della maschera che si è costretti a indossare nella società per farsi accettare, o per avere un ruolo. Rappresentazione del paradosso dell’esistenza, la mise en scene solca come un aratro le rughe dell’ipocrisia familiare delle apparenze: il protagonista, un “Ciampa – Lo Monaco” conficcato come un cardo nel verbo pirandelliano, è costretto a recitare il ruolo di uomo geloso per non mostrare alla società la consapevolezza di essere cornuto.

Ma è soprattutto nel monologo che lo scrivano recita – (“Deve sapere che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile, la pazza. Sopra tutto, dovendo vivere in società, ci serve la civile; per cui sta qua, in mezzo alla fronte. Altrimenti ci mangeremmo tutti, signora mia, l’un l’altro, come tanti cani arrabbiati. Non si può. Io mi mangerei – per modo d’esempio – il signor Fifì. Non si può. E che faccio allora? Do una giratina così alla corda civile e gli vado innanzi con era sorridente, la mano protesa: ‘Oh quanto m’è grato vedervi, caro il mio signor Fifì!’. Capisce, signora? Ma può venire il momento che le acque s’intorbidano. E allora… allora io cerco, prima, di girare qua la corda seria, per chiarire, rimettere le cose a posto, dare le mie ragioni, dire quattro e quattr’otto, senza tante storie, quello che devo”) – che arriva, micidiale, la stilettata. La risata diventa pensiero e riflessione, sinapsi che Lo Monaco, impegnato anche nella regia, dimostra di conoscere in profondità.

Non è tanto la qualità delle relazioni familiari l’humus di indagine che Pirandello mette al centro dell’opera (la analizza non parlandone apertamente ma lasciando allo spettatore una propria, solipsistica e quindi possibile verità) bensì il “peso” di ciascuna persona (in latino “personaggio“) all’interno di uno spazio della tortura che non ha – mai – vie d’uscita. Ciampa digerisce senza far apparente rumore la “parte” purché non venga toccato il suo “pupo”, la sua rispettabilità, e la sua “faccia”. Quella che gli altri vedono, quella che – sic et sempliciter – vogliono vedere. Perché la verità, nella vita e a teatro, non può esser detta. Non tutta, almeno. Non sul palcoscenico. Non davanti agli occhi delle persone.

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