Consorzio Terra di San Marino, un viaggio alla riscoperta delle antiche tecniche culinarie.
“Un tempo, nei mesi invernali, le galline misteriosamente smettevano di fare le uova. Era certamente un loro diritto, si riposavano dalle fatiche primaverili ed estive. Ma com’è che oggi le galline sfornano uova tutto l’anno? Negli sfortunati giorni di ieri, invece, come fare a sopperire al periodico periodo di carestia ovicola? Semplice: le uova si mettevano sotto calce” scrive il cantautore e poeta Francesco Guccini. Una tradizione che è ben viva, perlomeno nella memoria, anche nella Repubblica di San Marino dove l’azdora, il vero angelo del focolaio (e dell’intera casa), conosceva tutti i “trucchi” per destagionalizzare i prodotti che offriva la natura. Le uova rappresentavano difatti un alimento prezioso per la cucina e per le grandi tradizioni enogastronomiche: è quell’ingrediente che dà un tocco speciale alla pasta fatta in casa, ma anche alle festività (le uova benedette oppure decorate). E venivano impiegate con parsimonia, soprattutto nei mesi più freddi quando la “produzione” era quasi azzerata.
All’interno della “Casa di Fabrica” di San Marino, sede del “Museo della Civiltà Contadina e delle Tradizioni”, se lo ricordano bene, come ricordano le modalità di cottura. La più poetica (e magica per i più piccoli) porta direttamente al camino: alcuni prodotti – oltre alle uova anche le patate e le cipolle – venivano “preparati” sotto la cenere. L’uovo richiedeva circa quindici minuti di “riposo” sotto la coltre delle braci – l’esperienza dell’azdora era più precisa di un orologio – e una forchetta per “capire” il momento opportuno per servirlo in tavola.
La tecnica delle “uova in calce” (a San Marino “ovi in calzeina”) serviva per conservare i “doni” delle galline nei mesi più freddi. L’essenzialità e il pragmatismo del mondo contadino ci aiutano a capire le modalità operative. Si sceglievano quelle sane, dal guscio intatto, non fecondate (il gallo veniva in qualche modo “allontanato”) e venivano deposte, con grande attenzione, in un contenitore di terracotta o in una damigiana. Si mescolava l’acqua e la calce bianca: il liquido veniva versato sulle uova e creava una pellicola attorno al guscio. La calce (talvolta veniva utilizzato anche il grasso degli animali) otturava i pori della superficie e permetteva quindi di conservarle per i giorni di festa dell’inverno.
L’impiego è quello più conosciuto e amato anche oggi: la “sfoglia”. Anche se, e forse qualcuno lo ricorderà, la pasta tirata in casa non sempre veniva fatta con le uova. Per fare la cosiddetta “sfoglia matta” venivano utilizzati farina di grano o di mais e acqua. A differenza di quella “tradizionale”, quella “matta” era più difficile da “stendere” con il mattarello a causa del basso contenuto proteico. Il risultato in tavola però non deludeva mai: una vera azdora era sempre brava, anche nelle difficoltà, e sapeva realizzare un piatto eccellente anche senza alcuni ingredienti fondamentali. Senza uova erano anche gli “Strozzapreti”: farina bianca e acqua tiepida. Sul nome bizzarro di questa pasta la letteratura popolare della Romagna e del Titano è fervida e divertente.
Una tradizione molto diffusa vuole che venisse preparata quando l’azdora rimaneva senza uova perché il prete se le era portate via tutte e quindi, mentre impastava la farina con l’acqua, si augurava che il prete si strozzasse mentre mangiava le uova con le quali lei avrebbe dovuto fare la pasta per la sua famiglia. Un’altra invece racconta che le donne romagnole preparavano questo tipo di pasta per offrirla al prete del paese, mentre i mariti, forse invidiosi, auguravano al prete di “strozzarsi” mentre si abbuffava.
Un altro alimento che non mancava quasi mai era il pane: veniva fatto per tutta la settimana. Per le “forme” più abbondanti si chiedeva aiuto alla “grama”, uno strumento che serviva per mescolare meglio l’impasto. Il “pane crudo” veniva cotto nel forno domestico oppure, per quantitativi più grandi, nei luoghi preposti. A San Marino si andava al “Silos mulino forno” e per “riconoscere” le proprie “pagnotte” veniva apposto un piccolo segno di riconoscimento, un timbro per esempio.