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Crisi, paura e diffidenza: le tre parole degli italiani

da Redazione

Ecco la “fotografia sociale” sviluppata dal Censis per l’anno 2018. Emergenza lavoro in crescita, scende il potere di acquisto delle famiglie.

crisi

 

Sovranismo psichico e un’idea negativa dell’immigrazione da Paesi non comunitari, ma anche un export in crescita, a cui fa da contraltare una diminuzione del potere d’acquisto delle famiglie. Nel capitolo “La società italiana al 2018” del 52esimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese (che può essere scaricato in maniera integrale sul sito del Centro Studi Investimenti Sociali), ci soffermiamo sugli aspetti più economici.

 

IL POTERE D’ACQUISTO


Il potere d’acquisto delle famiglie italiane è ancora inferiore del 6,3% in termini reali rispetto a quello del 2008. E i soldi restano fermi, preferibilmente in contanti: nel 2017 si è registrato un +12,5% in termini reali del valore della liquidità rispetto al 2008, a fronte di un più ridotto incremento (+4,4%) riferito al portafoglio totale delle attività finanziarie delle famiglie. La forbice nei consumi tra i diversi gruppi sociali si è visibilmente allargata. Nel periodo 2014-2017 le famiglie operaie hanno registrato un -1,8% in termini reali della spesa per consumi, mentre quelle degli imprenditori un +6,6%. Fatta 100 la spesa media delle famiglie italiane, quelle operaie si posizionano oggi a 72 (erano a 76 nel 2014), quelle degli imprenditori a 123 (erano a 120 nel 2014). Molto difficilmente beni e servizi che non accendono desideri specifici dei singoli consumatori avranno una potenza attrattiva sufficiente per vincere la tendenza a tenere i soldi fermi, preferibilmente in forma cash.

 

UE, LEADERSHIP PERDUTA


Nell’Unione europea vive il 6% della popolazione mondiale, si produce il 22% del Pil e l’euro è il secondo mezzo di pagamento negli scambi planetari. Tra l’area dell’euro e l’Ue a 28 Paesi i tassi di crescita nel 2017 risultano allineati intorno al 2,4% e il rapporto debito/Pil è in media al di sotto del 90%. Al più alto Pil pro-capite dell’area dell’euro (quasi 33.000 euro annui, contro i 30.000 dell’intera Ue) si affianca un tasso di disoccupazione di un punto e mezzo in più tra chi non aderisce alla moneta unica. La quota di popolazione esposta al rischio di povertà o esclusione sociale si aggira per le due aree intorno al 22%. Ma emerge il fallimento dei processi di convergenza. Tra i 19 Paesi aderenti all’euro, solo 7 hanno un rapporto debito/Pil inferiore al 60% come stabilito negli accordi di Maastricht, e degli altri 12 sono in 4 a presentare una quota superiore al 100%.

 

LE RAGIONI ECONOMICHE


Rispetto al 2010, in Italia gli investimenti sono ancora all’89,4% del valore di allora, i consumi delle famiglie al 97,4%, la spesa delle amministrazioni pubbliche al 99,1%, il Pil al 99,7% (a fronte di un dato medio europeo in questo caso del 110,6%). Solo l’export è cresciuto (+26,2%). Nel 2017 le esportazioni di merci hanno superato i 448 miliardi di euro (+7,4% rispetto al 2016), con un saldo commerciale positivo di 47,5 miliardi. L’Italia è il 9° Paese esportatore al mondo, con una quota di mercato del 2,9% (il 3,5% se si considera solo il manifatturiero). Le imprese esportatrici sono oggi 217.431 (8.431 in più dal 2012). E tutto ciò si svolge per la gran parte dentro l’Europa (il 55,6% del valore dell’export). Su 90,6 milioni di viaggiatori stranieri entrati in Italia nel 2017, ben 63,3 milioni (il 69,9% del totale) provenivano da Paesi europei. Dei 39,2 miliardi di euro spesi in Italia dai turisti stranieri, 22,8 miliardi sono attribuibili ai turisti europei (il 58,2% del totale). Ma oggi solo il 43% degli italiani pensa che l’appartenenza all’Ue abbia giovato all’Italia, contro una media europea del 68%: l’Italia è all’ultimo posto in Europa, addirittura dietro la Grecia della troika e il Regno Unito della Brexit. Eppure, finora gli italiani hanno sempre partecipato alle elezioni europee con percentuali di affluenza di gran lunga superiori alla media dell’Ue: nel 2014 il 72,2% contro il 42,6%.

 

CRESCERE E INNOVARE


La spesa pubblica destinata in Italia alla ricerca è scesa da poco meno di 10 miliardi di euro nel 2008 a poco più di 8,5 miliardi nel 2017. Nel periodo è passata da 157,5 euro per abitante a 119,3 euro. Per poter competere nella dimensione dell’innovazione, l’unica chance per l’Italia è una maggiore integrazione nei processi che si realizzano a livello comunitario. Per beneficiare del traino che l’Ue esercita attraverso programmi e fondi destinati ai singoli Paesi, come Horizon 2020. Dei quasi 77 miliardi di euro previsti nel budget del programma 2014-2020 ne sono già stati assegnati oltre 33 miliardi, di cui 2,8 all’Italia. Il Paese è il 5° per finanziamenti ricevuti, dopo Germania, Regno Unito, Francia e Spagna. E il 4° per numero di progetti finanziati: il 9,5% dei quasi 92.000 progetti che hanno ricevuto il contributo.

 

L’IPOTECA SUL LAVORO


Tra il 2000 e il 2017 nel Paese il salario medio annuo è aumentato solo dell’1,4% in termini reali. La differenza è pari a poco più di 400 euro annui, 32 euro in più se considerati su 13 mensilità. Nello stesso periodo in Germania l’incremento è stato del 13,6%, quasi 5.000 euro annui in più, e in Francia di oltre 6.000 euro, cioè 20,4 punti percentuali in più. Se nel 2000 il salario medio italiano rappresentava l’83% di quello tedesco, nel 2017 è sceso al 74% e la forbice si è allargata di 9 punti. Tra il 2007 e il 2017 gli occupati con età compresa tra 25 e 34 anni si sono ridotti del 27,3%, cioè oltre un milione e mezzo di giovani lavoratori in meno. Nello stesso tempo gli occupati di 55-64 anni sono aumentati del 72,8%. In 10 anni l’Italia è passata da un rapporto di 236 giovani occupati ogni 100 anziani a 99 mentre nel segmento più istruito i 249 giovani laureati occupati ogni 100 lavoratori anziani del 2007 sono diventati appena 143. A rendere ancora più critica la situazione è la presenza di giovani in condizione di sottoccupazione, che nel 2017 ha caratterizzato il lavoro di 237.000 persone di 15-34 anni: un valore raddoppiato nell’arco di 6 anni. Aumentato il numero di giovani costretti a lavorare part time pur non avendolo scelto: 650.000 nel 2017, ovvero 150.000 in più rispetto al 2011.

 

IL CAPITALE UMANO

 

L’Italia investe in istruzione e formazione il 3,9% del Pil, contro una media europea del 4,7%. Investono meno solo Slovacchia (3,8%), Romania (3,7%), Bulgaria (3,4%) e Irlanda (3,3%). Tra il 2014 e il 2017 i laureati di 30-34 anni sono passati dal 23,9% al 26,9%, ma nello stesso periodo la media Ue è salita dal 37,9% al 39,9%.

Gli abbandoni precoci dei percorsi di istruzione nel 2017 riguardano il 14% dei giovani 18-24enni, contro una media Ue del 10,6%. A parità di potere d’acquisto, la spesa per allievo risulta inferiore alla media europea di 230 dollari nella scuola primaria, di 917 dollari nella secondaria di I grado, di 1.261 dollari nella scuola secondaria di II grado.

 

FOCUS: TRIPLICATA LA SPESA PER I TELEFONINI


Smartphone


I dispositivi della disintermediazione digitale continuano la loro corsa inarrestabile, battendo anno dopo anno nuovi record in termini di diffusione e di moltiplicazione degli impieghi. Oggi, spiega il 52esimo report del Censis, il 78,4% degli italiani utilizza internet, il 73,8% gli smartphone con connessioni mobili e il 72,5% i social network. Nel caso dei giovani (14-29 anni) le percentuali salgono rispettivamente al 90,2%, all’86,3% e all’85,1%. I consumi complessivi delle famiglie non sono ancora tornati ai livelli pre-crisi (-2,7% in termini reali nel 2017 rispetto al 2007), ma la spesa per i telefoni è più che triplicata nel decennio (+221,6%): nell’ultimo anno si sono spesi 23,7 miliardi di euro per cellulari, servizi di telefonia e traffico dati. “E abbiamo finito per sacrificare ogni eroe sull’altare del soggettivismo, potenziato nei nostri anni dalla celebrazione digitale dell’io” Nell’era biomediatica, in cui uno vale un divo, siamo tutti divi. O nessuno, in realtà, lo è più”. La metà della popolazione (il 49,5%) è convinta che oggi chiunque possa diventare famoso (il dato sale al 53,3% tra i giovani di 18-34 anni). Un terzo (il 30,2%) ritiene che la popolarità sui social network sia un ingrediente “fondamentale” per poter essere una celebrità, come se si trattasse di talento o di competenze acquisite con lo studio (il dato sale al 41,6% tra i giovani). Ma, allo stesso tempo, un quarto degli italiani afferma che oggi i divi semplicemente non esistono più. In più, il 41,8% crede di poter trovare su internet le risposte a tutte le domande (il 52,3% tra i giovani).

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