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Repubblica di San Marino, la “b-Arca” dell’arte novecentesca

da Redazione

Opera unica di tre Maestri (Afro Libio Basaldella, Franco Gentilini e Orfeo Tamburi) e creata nel 1947, è composta da 83 formelle d’autore. Oggi si trova sul Titano: Giuseppe Arzilli l’ha fatta restaurare.

arzilli arca noè

 

di Alessandro Carli

 

Tre stili, tre poetiche, tre nomi. Con una missione che si sovrappone, nel nome della salvezza. In bilico tra un’impronta canonica e qualche apostrofo apocrifo, con un’idea comune, quella di ritualizzare una pagina sacra dei racconti biblici. In piena mentalità novecentesca – il secolo in cui il “carattere paradossale del mito” consiste nel suo essere “un oggetto senza tratti definiti” così da permettere “variazioni vaste anche divergenti” – Afro Libio Basaldella, Franco Gentilini e Orfeo Tamburi si incontrano e nel 1947 realizzano un grandissimo pannello ceramico policromo (370 x 190 centimetri), “L’Arca di Noè”. “Un’opera unica perché non si conosce un secondo esperimento condotto dai tre – queste le parole di Giancarlo Galdi -, che hanno lavorato in comunione d’intenti alla maniera degli artisti del Rinascimento. L’idea generale, la scansione dello spazio e anche il fondale sono invenzione di Afro”.

Una straordinaria opera composta da 83 formelle d’autore sino a qualche anno fa sconosciuto e riportato in vita da Giuseppe Arzilli, orafo sammarinese e mecenate d’arte che ha si è avvalso di professionalità cristalline del Museo della Ceramica di Faenza per la fase di restauro. “L’Arca di Noè” difatti versava in uno stato cagionevole di salute (era ubicata in una villa a Parigi). E’ stato quindi necessario smontare le formelle una ad una per riportarle all’antica bellezza.

Parliamo di un topos della letteratura e dell’arte – sul tema si sono impegnati, tra gli altri, anche Michelangelo Buonarroti, Edward Hicks, Gustave Dorè e Salvador Dalì: nel 1967, nel pieno del suo periodo mistico nucleare, affrontò “La sacra Bibbia”– che cela, proprio nella sua “data di nascita”, tutta la sua forza innovativa: gli stilemi classici, rivisitati e riammodernati, lasciano il posto a una raffigurazione “figlia del suo tempo”, di quell’Italia (o forse di quel mondo) che si leggeva addosso, sulla pelle, le ulcere della Seconda Guerra Mondiale.

È una figura archetipica, quella di Noè, da sempre presente nella memoria interna sia di chi ha prodotto la letteratura e i miti, sia di chi se ne è sempre nutrito. Si è di fronte a un nome parlante, che assomma su di sé, attraverso un comportamento ambiguo e sfuggente, incoerenze e fraintendimenti. Il mito classico è dunque, come per Alberto Savinio, semplicemente un pretesto. O, se si preferisce, un serbatoio di “tipi psicologici” che debbono essere continuamente modificati o attualizzati. O, ancora, una galleria di maschere apparentemente fisse, ma dietro le quali si cela un volto che l’artista – o, in questo caso specifico, i tre artisti – può foggiare a suo piacimento, adeguandole al proprio gusto e allo spirito mutevole dei tempi. I miti, in questa prospettiva, divengono pure e semplici entità nominali e fantastiche, dei cliché che però nulla hanno di immutabile.

Appare chiaro, scrive Ilaria Batassa nel saggio “La profondità della superficie: Alberto Savinio tra mito, canone e innovazione” (Roma, Adi editore, 2014) che “la vera dignità del mito nell’attualità risiede nella sua capacità di adattarsi alla mutazione dei tempi, di rendersi morale, carne e sangue vivo, pronto alla morte, pensante alla morte. In questa prospettiva, dunque, si è di fronte a un’interferenza tra realtà e mitologia il cui risultato è una deformazione dell’una e dell’altra”.

Deformazione che è incardinata nelle differenze degli artisti. Gli stili dei tre, scrive difatti con profonda competenza Karina Mamalygo, “sono completamente diversi: la sensazione penetrante del colore di Afro Basaldella, il metaforismo e l’intensità intellettuale di Franco Gentilini, la raffinatezza delle linee di Orfeo Tamburi, si uniscono in una incredibile sintesi artistica e materiale, superando gli stili individuali”.

Novecentesca è senza dubbio la scelta cromatica, valorizzata dal supporto (la ceramica), che riporta di primo acchito alla poetica aurea di Gustav Klimt per poi distanziarsene: riemerge, anzi, vengono recuperate (e quindi salvate, per rimanere nel tema dell’Arca) le nuance di Vincent Van Gogh, quel giallo ocra che caratterizza i campi di grano maturo. Sempre appartenenti al “secolo breve” sono poi gli animali, stilizzati e resi quindi più contemporanei: la giraffa naif e la scimmia che appaiono sul versante sinistro dell’opera, ma anche le stelle che sovrastano – sempre sul lato sinistro – la nave. Sono i colori della natura rigenerata dal diluvio, quelli che si staccano, senza mai abbandonarla, l’opera partorita dai tre padri: il verde della speranza (la stessa che le persone sognavano finito il conflitto bellico), il giallo dei sogni (o dell’onirismo), e soprattutto l’azzurro del mare, lì dove l’elemento acquatico diventa archetipo e simbolo deciso del viaggio.

Non è data di sapere all’osservatore la destinazione, “salvifica”, dell’arca: l’attimo fermato è quello dell’accoglienza, dell’attesa dell’imbarco. E forse non è così importante: il futuro, nell’immediata chiusura del sipario della Guerra, era tutto da inventare.

“In alto, nella sovrastruttura dell’Arca, in marrone scuro, si affaccia il vecchio Noè, stanco per il grande lavoro – prosegue Karina Mamalygo -, il quale guarda, come usciti da una cornucopia, gli animali che ripopolano la terra: scimmiette, cavalli, uccelli, gatti, mucche… Le immagini di alcuni di questi animali sono così semplici e che sembrano prese dai presepi natalizi. I fregi ornamentali sui lati del pannello e la corrente d’acqua blu chiaro in primo piano, affollata di pesci colorati e altri esseri marini, aggiungono un senso di festività alla composizione”.

Un’Arca quindi “positiva, forse anche “positivista”, in-caricata dai tre artisti di farsi portatrice del concetto biblico di “nuova terra”, espletato però attraverso l’equilibrio tra la tradizione (la matericità della ceramica) e i respiri ancora annebbiati (ma nel 1947 già diradati) del fumo dei cannoni e dei fucili.

Metafora forte, in parte anacronistica (o, più opportunamente, pioneristica): l’arte, nella sua accezione più nobile, viene partorita nell’attimo in cui viene completata ma ha, come germinazione spontanea, quella di allungarsi verso il domani, facendosi “portatrice” di messaggi e, in questo caso, anche di animali.

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