L’aulicismo del linguaggio, oltremodo forbito, diventa ulteriore elemento di comicità e di conferma della poetica di Francesca Airaudo, Mirco Gennari e Michele Bertelli.
di Alessandro Carli
SAN CLEMENTE (RN) – L’improbabile è ciò che è sempre paradossale ma che non ha ancora esaurito il proprio possibile, quello cioè che non ha più bisogno di dimostrazione perché si è fatto presente. L’improbabile, un’esigenza in essere, è il potenziale umano che sfugge alla misura ma che rimane probabilità ricca di avvenire. Difficile dire se l’improbabile “è” falso e se “è” una menzogna, però se viene raccontato bene e in maniera convincente, diventa veritiero. Perlomeno a teatro dove, il 1 dicembre, le tre punte di diamante della Compagna del Serraglio – Francesca Airaudo, Mirco Gennari e Michele Bertelli – hanno portato sulle assi del Teatro Villa uno degli atti del progetto “Falso!”, quello dedicato al cinema.
Parodia dei film d’essai (e di conseguenza anche della vita, anch’essa, chiaramente, d’essai) e, abbracciando la contemporaneità di taluni programmi d’intrattenimento della televisione (soprattutto della televisione), “Falso!” è un’analisi tagliente e cruda che analizza la necessità delle persone di occupare il tempo attraverso argomentazione vuote che devono apparire vere (o verosimili) agli interlocutori per tirare a far sera.
Con ogni probabilità, la macchiettizzazione sopra le righe dei personaggi è molto meno manieristica di quello che può sembrare: la Compagna del Serraglio, senza dichiararlo, mette in scena – pirandellianamente – la platea: il regista neo-post-realista Osvaldo Piperno (Mirco Gennari) che dialoga e cerca conferme nelle parole del critico Armando Armandini (Michele Bertelli) non sono che la trasposizione scenica – e quindi visibile – di quello che accade nella società: la ricerca di un motivo qualunque da innalzare a “esempio”, il microcosmo che diventa macrocosmo, ma solo per la durata di una sera, o di uno spettacolo, o di una vita intera.
La scusa che accende la miccia della pièce è l’apoteosi con cui è stato accolto e recensito “Un filo d’erba tra gli altri” di Piperno, un regista che si presenta agli occhi del pubblico come la crasi tra Roberto D’Agostino (ma meno ingioiellato e con meno anelli) e Giampiero Mughini. Armandini vola alto, e parla di lui come di un “reinventore della luce come antitesi del buio”, di “mirabile propugnatore del nulla, come contrario del tutto”, di “sacerdote del fotogramma ermeneutico” e di “epicureo della dissolvenza informale”. L’aulicismo del linguaggio, oltremodo forbito, diventa ulteriore elemento di comicità e di conferma della poetica del Serraglio che, per sottile e raffinata coerenza, accompagna la presentazione dello spettacolo con un ulteriore “falso”, in questo caso solo temporale: un’immagine dei tre attori abbastanza “datata”.
Una messa in scena che funziona e non nasconde, specie nella parte centrale, qualche momento meno denso: del resto, succede anche nella vita…