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San Marino, o riforme sostenibili o altri 500 milioni di debito

da Redazione

Il “piano” del Governo: finanziamento esterno dal FMI (270 milioni) e nuovi titoli di Stato (circa 300 milioni, forse comprati dai fondi pensione). La strada alternativa è quella prospettata dalle categorie economiche: subito spending review e sviluppo.

 fmi e san marino

 

di Daniele Bartolucci

 

L’aumento a 11,5 milioni di euro del disavanzo finanziario del Bilancio dello Stato certificato a inizio agosto con la Variazione straordinaria (ne seguirà una seconda, più completa, nelle prossime settimane), diventa poca cosa di fronte ai numeri portati sul tavolo dal Governo al rientro dalle vacanze. Si parla di un indebitamento pubblico di ulteriori 500 milioni, che porterebbe lo Stato di San Marino a dover ridare indietro ai creditori una cifra di oltre 830 milioni, visto che l’attuale debito è attorno ai 330 milioni di euro. La soluzione prospettata dal Governo è il finanziamento esterno (270 milioni dal FMI) e nuovi titoli di stato (circa 300 milioni, comprati probabilmente con i fondi pensione), un intervento che, unito alle prossime riforme, permetterà in futuro di ridare vigore all’economia del Paese. Per le parti sociali l’approccio è diametralmente opposto: prima occorre “sistemare le cose”, ovvero intervenire sulle normative e completare la spending review, poi con le riforme a regime analizzare quanti soldi servano ancora e come trovarli.

 

IL CONFRONTO VA AVANTI MA SENZA DIALOGO

 

Il punto di incontro potrebbe essere il confronto, ma come lamentano associazioni datoriali e sindacati, al momento il Governo non retrocede dalle proprie posizioni e strategie, chiudendosi a qualsiasi proposta alternativa o modifica di quanto ha presentato. Come è il caso del Piano di Stabilità e Sviluppo, “madre” di tutte le riforme per il Paese, che si sta trasformando in un tavolo infinito e quasi inutile a dire di alcuni. Come noto, il Governo aveva convocato le parti sociali per riaprire i lavori sulle linee ideate e presentate mesi prima: il problema è che le ha convocate per il 10 di agosto, l’ultimo giorno lavorativo prima della pausa ferragostana per la maggior parte delle persone, compresi gli organi direttivi delle associazioni e dei sindacati. Inoltre, le associazioni di categoria, oltre a palesare questa ovvia difficoltà, hanno ribadito un concetto forse non troppo chiaro al Governo: la discussione si può riaprire solo su un nuovo testo, che comprenda quanto da loro proposto, altrimenti non ha senso ridiscutere di un documento che il Governo ha ideato da solo e che ha già illustrato e dibattuto con le associazioni di categoria. Di fronte a questo impasse, il Governo ha spostato la convocazione al rientro dalle ferie, il 27 agosto, ma il documento pare sia rimasto lo stesso, se non nella parte riguardante il debito, che stando alle prospettive del Governo potrebbe schizzare a 800-830 milioni nei prossimi mesi.

 

BANCHE, FMI, BOND E FONDI PENSIONE

 

Come detto, l’ipotesi presentata il 27 agosto dal Governo alle parti sociali è molto preoccupante: servono 500 milioni di euro da immettere nel sistema bancario (in buona parte per Cassa di Risparmio, ma non è chiaro se anche altri istituti abbiano queste necessità così urgenti e di questo valore), per cui il debito dello Stato, che oggi sfiora i 330 milioni, potrebbe quasi triplicare in un colpo solo, arrivando appunto a quegli 800-830 milioni di cui si è detto sopra. Una cifra, vale la pena ricordare, non troppo lontana dal miliardo di euro che si diceva qualche anno fa. E come qualche anno fa, si parla ancora di finanziamento estero, in questo caso del Fondo Monetario Internazionale: secondo il Governo il FMI sarebbe disposto a prestare allo Stato fino a 270 milioni di euro, stabilendo un piano pluriennale di rientro. Non è specificato a quali condizioni, che di solito non sono solo economiche: il FMI aiuta e sostiene i Paesi, ma li “accompagna” anche nei processi di riforma e sviluppo, chiedendo piani concreti e sostenibili, ma spesso anche tagli e tasse. Non è un caso che il Governo sia impaziente di vagliare la riforma delle pensioni (anche se al momento il “muro” dei sindacati è alto e resistente) e mettere le mani sull’IGR modificandone probabilmente le aliquote. Il tutto mentre è ormai chiaro che ci sarà un “contributo forzoso” chiesto ai dipendenti pubblici: saltata l’idea di togliere un’ora di lavoro a settimana per abbassare il costo del personale, ora si discute di un vero e proprio contributo di solidarietà, crescente a seconda dello stipendio. Un intervento che, però, non sposta il problema, né avvicina i sindacati al tavolo della trattativa per il rinnovo del contratto per il settore pubblico, che potrebbe anche essere del tutto nuovo.

Tornando al FMI, anche se l’organismo internazionale dovesse prestare davvero 270 milioni, ne mancherebbero ancora parecchi per sistemare i conti dello Stato: il Governo non ha avuto timore di annunciare alle parti sociali la sua strategia, ovvero quella di emettere nuovi titoli di stato per circa 300 milioni di euro. Obbligazioni (bond) che qualcuno dovrà comunque comprare: ma, stante la scarsa disponibilità delle banche, palesata a più riprese anche dallo stesso Governo, chi potrebbe mai permettersi una cifra del genere a San Marino? Nessuno, a parte chi questi soldi è già obbligato oggi a tenerli immobilizzati proprio nel sistema domestico: i fondi pensione. Sono loro gli indiziati numero uno per assolvere questo ingrato compito di dare fiducia allo Stato e, in particolare, a questo Governo, vincolando per anni il proprio patrimonio (la maggior parte, visto che gli altri 150 milioni circa servono ovviamente per pagare le pensioni ogni mese). Ovviamente, se il Governo opererà a colpi di forza con categorie economiche e sindacati sugli altri fronti, difficilmente potrà andare a chiedere a queste (che detengono e gestiscono i fondi pensione) di acquistare i propri bond per sostenere il proprio piano. O si condivide il piano, o il giro a un certo punto si interrompe.

 

PA: IDEA TAGLIO STIPENDI DA 1,5% IN SU

 

“Dopo una serie di provvedimenti che hanno già colpito i salari pubblici e 10 anni senza rinnovo contrattuale, il Governo insiste sulla linea dei tagli alle retribuzioni”, lamentano i segretari delle Federazioni Pubblico Impiego della CSU, Alessio Muccioli (CSdL) e Milena Frulli ( CDLS). “Tramontata infatti l’idea, perché inapplicabile, del taglio dell’orario settimanale, la nuova proposta è quella di un taglio dell’1,5% per gli stipendi fino a 1500 euro, del 3,5% per le retribuzioni da 1500 a 2500 euro e si procede con aliquote che si innalzano progressivamente per scaglioni di 500 euro”.

Per i segretari di FUPI-CSdL e FPI-CDLS è una scelta sbagliata: “Il Governo a parole dice di essere favorevole ad una serie di riduzioni di spesa derivate da razionalizzazioni e da una revisione delle convenzioni e degli appalti, nei fatti però continua a proporre elementari politiche di taglio lineare sui soli salari pubblici, cosa che innescherebbe una lesione dei diritti contrattuali oltre ad un ulteriore aggravio della capacità di spesa delle famiglie sammarinesi e quindi a tutta l’economia”.

Gli ultimi numeri dell’Ufficio Statistica, ricordano Muccioli e Frulli, purtroppo confermano un netto calo dei redditi e dei consumi: “Nel 2016 il reddito medio delle famiglie era pari a 42.200 euro, mentre nel 2017 è sceso a 38.900, pari a uno sconfortante -7,8%. Negativa anche la dinamica dei consumi: nel 2017 si è registrato un calo della spesa media mensile delle famiglie sammarinesi pari al 3.1% rispetto al 2016”. Per questo nel mirino del Governo, più del pareggio di bilancio, dovrebbe esserci l’equità fiscale, che si raggiunge anche, avvertono i segretari di FUPI e FPI, con una lotta più incisiva all’evasione fiscale, da cui “deve ripartire il risanamento dei conti pubblici. Da chi insomma”, chiosano, “nasconde e sottrae risorse alle famiglie, alle imprese e allo Stato”.

 

PENSIONI: SINDACATI CONTRARI

 

Dall’assemblea dei delegati sindacali di CSDL e CDLS emerge, oltre allo scontro sul Piano di Stabilità, anche una forte contrarietà a molti degli interventi ipotizzati dal Governo per riformare il sistema pensionistico sammarinese. E’ una “riforma”, spiegano i sindacati in una nota, “che contiene diversi punti critici, a partire dall’assenza del contribuito dello Stato. Contributo che invece per il sindacato deve essere confermato anche per i prossimi anni, in quanto la parte pubblica non può abdicare al suo ruolo sociale e di sostengo dei cittadini”.

Altro capitolo fortemente contestato è quello che fissa a 103 quella che dovrebbe essere la somma tra età anagrafica e anni di contribuzione: “In realtà il tentativo è quello di introdurre unicamente l’aumento dell’età pensionabile, portandola da 60 a 63 anni con almeno 40 anni di versamenti”. “Si stabiliscono poi una serie di disincentivi per chi esce prima dei 64 anni e, addirittura, si incentiva chi rimane al lavoro fino a 70 anni”. Se da parte della CSU non c’era mai stata una preclusione di fondo su questo possibile cambiamento della quota da 100 a 103, “ora la modalità scelta dall’Esecutivo ci vede nettamente contrari”. Così come contrari sono rispetto all’eliminazione della “no tax area”, pari al 20% per le pensioni da 1.000 euro in su, “che si traduce in un significativo aumento della tassazione”. No deciso anche alla possibilità di continuare a lavorare per i titolari di pensioni di vecchiaia, senza nessun abbattimento (anche parziale) della propria pensione: è una “pratica che di fatto ostacola l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e che genera per una sola fascia di lavoratori, escludendo altre, la possibilità di percepire due redditi”. Inoltre “il progetto di riforma prevede per i giovani una minore contribuzione all’atto della prima assunzione, mentre al contempo si ipotizza che il TFR sia destinato per metà per il finanziamento del secondo pilastro§: anche questa è una soluzione discutibile, partendo dal fatto che attualmente il TFR nel sistema sammarinese è retribuzione diretta, al contrario di quanto accade nel sistema italiano”. “Forti le perplessità sul nuovo contributo di solidarietà”, aggiungono poi i sindacati della CSU. “Dalle tabelle allegate”, spiegano, “si delineano tagli piuttosto sostenuti: le pensioni superiori ai 2.000 euro subirebbero, in aggiunto a quanto già pagato, maggiori trattenute per effetto del combinato disposto della modifica della no tax-area e del nuovo prelievo di solidarietà che va da un mimino del 3% a un massimo del 10%. Si tratta di decurtazioni inaccettabili, anche tenendo conto che già da diversi anni esiste il contributo di solidarietà”.

Altro aspetto che ha incrociato ferma contrarietà è quello sulla governance dei fondi pensioni: “Si propone infatti di cancellare gli organismi attualmente esistenti e di far gestire sia il primo che il secondo pilastro da un unico organismo “pseudo-tecnico” nominato dal Congresso di Stato che dovrebbe essere formato da tre persone. In sostanza, il Governo vorrebbe arrogarsi il diritto di gestire direttamente i fondi pensione, mentre al sindacato e alle associazioni datoriali verrebbe assegnato solo un ruolo di controllo postumo e marginale”. Anche su questo punto l’attivo CSU è stato chiaro: “Negli organi di gestione dei fondi pensionistici i rappresentanti delle parti sociali e delle categorie economiche devono avere, in termini di voti, un ruolo ed un peso maggioritario, in quanto sono le uniche a rappresentare i soggetti che versano le risorse in tali fondi”. Ma quello che più preoccupa è “la proposta che va a cambiare completamente la natura del nostro sistema previdenziale: è infatti citata l’ipotesi di passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo. Ciò, peraltro, senza sapere se vengono salvaguardati i diritti acquisiti, che sono irrinunciabili”, ribadisce la CSU nella sua nota. “In tal senso occorre tenere conto dei tre sistemi che presiedono al calcolo della prestazione pensionistica: quello originario con la riforma del 1983, quello del periodo successivo dopo la riforma del 2005, ed inoltre quello della riforma del 2011. E quest’ultima riforma già introduce un rapporto attorno al 60% tra ultimo stipendio e assegno previdenziale. Il forte rischio è che il nuovo sistema contributivo farebbe maturare prensioni al di sotto del 60%, portando le future pensioni delle giovani generazioni a livelli di vera e propria povertà. Pertanto, respingiamo con forza anche questa ipotesi”.

Il giudizio è quindi pesantemente negativo, “pertanto – affermano i segretari CSU Tamagnini e Montanari- rinnoviamo l’invito al Governo a non procedere all’avvio all’iter consiliare di nessun progetto di legge in materia pensionistica senza aver prima espletato, fino in fondo, un negoziato con le organizzazioni sindacali. E l’eventuale accordo sulla riforma”, annunciano, “dovrà essere sottoposto alla valutazione finale dei lavoratori e dei pensionati attraverso un referendum”.

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