Tredici pezzi in tutto, un viaggio ad occhi chiusi lungo e soprattutto profondo, ai margini del deserto, psichedelico e allo stesso tempo romantico, con quella dolcezza che sa diventare un artiglio.
di Alessandro Carli
SAVIGNANO SUL RUBICONE – Tre conferme e una sorpresa e mezza. La prima: non c’erano dubbi, ovviamente, ma i Mercury Rev, portati in concerto giovedì 13 settembre al Cinema Teatro Moderno di Savignano sul Rubicone dall’associazione culturale Retro Pop Live, sono davvero strepitosi. Live elegante e contagioso, carico e allo stesso tempo raffinato, nonostante, e questo va detto, una certa “non pulizia” delle poltrone, che odoravano di polvere e di “vecchio”.
La seconda: il pubblico, di qualità più che di quantità (teatro riempito per il 70% della capienza circa, un vero peccato perché l’esecuzione dell’album “Deserter’s song” a 20 anni dalla sua uscita è stata impeccabile e meritava decisamente un sold out) e soprattutto maschile.
La terza: anche per i Mercury Rev una parte dei presenti in sala ha preferito dedicarsi alle “riprese” video (e fotografiche) con i telefonini, perdendosi la ipnotica magia che è scesa dal palco, ad ampie mani, per circa un’ora e mezzo.
La sorpresa invece ha un nome: Gioele Valenti, alias “Herself”, cantautore siciliano eccezionale che è stato chiamato ad aprire la performance dei Mercury Rev. Mezzora di palco – più o meno dalle 21.20 alle 21.50 -, quasi due manciate di pezzi, un miniconcerto che ha la dignità, per qualità e densità, di un live pieno. La mezza sorpresa invece è accaduta nella pausa tra i due concerti quando, dopo aver aperto le porte di sicurezza, dalla chiesa attigua al “Moderno” si sono sentite alcune voci del coro intonare un “Hallelujah” canonico, tra i sorrisi dei presenti.
Alle 22 spaccate i Mercury Rev (foto Luca Ortolani – Vez Magazine) sono entrati in scena. Come annunciato, hanno eseguito le tracce di “Deserter’s Songs”: “The Funny Bird”, “Tonite It Shows”, “Peaceful Night”, “I Collect Coins”, “Hudson Line” (con tanto di sax), “Here”, “Endlessly”, “Delta Sun”, “Sea Of Teeth”, “Goddess”, “Holes”, “Opus 40” (meravigliosa e ritmata dalle percussioni), “Dark Is Risin”. Musica e canto, ma anche parole, spiegazioni dei pezzi. Brani soprattutto suonati, in maniera eccellente, con assoli di armonica a bocca che riportano al primo Bob Dylan e con il flauto che ha gli effetti devastanti e sublimi come quelli che si avvertono in “Sunday” di Nick Drake. Tredici pezzi in tutto, un viaggio ad occhi chiusi lungo e soprattutto profondo, ai margini del deserto, psichedelico e allo stesso tempo romantico, con quella dolcezza che sa diventare un artiglio (il penultimo pezzo, con l’ingresso delle percussioni, ha fatto tremare e ballare tutto il teatro) e poi ritrasformarsi in una carezza.
Più che un concerto, un concertone. Intimo e grande ma non nostalgico: la musica, anche la loro, non ha età. E i capolavori rimangono tali anche dopo un secolo.