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Visto per voi: il concerto per i 40 anni dell’uscita dell’album “Rimini”

da Redazione

Il live, all’interno di una Corte degli Agostiniani gremita all’inverosimile, ha messo in luce un certo provincialismo dei cantautori riminesi.

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di Alessandro Carli

 

Buona parte della fortuna di “Rimini”, il miglior album di Massimo Bubola, è dovuta al live che Fabrizio De André, sul finire degli anni Settanta, ha eseguito assieme alla PFM: un’alchimia unica di sonorità e poesia, resa ancora più dirompente dagli arrangiamenti rock e prog della band.

Premessa doverosa per fare chiarezza sulla celebrazione che la città di Rimini ha organizzato il 21 luglio in occasione dei 40 anni dall’uscita del disco: il long playing, nonostante porti il nome di Faber, è un lavoro in cui emerge in maniera marcata e dominante la poetica del cantautore veneto.

La città ha voluto ricordare l’anniversario attraverso una serie di iniziative durate “sei ore” filate: alle 18 l’incontro su “Lui, io, noi” di Dori Ghezzi, Giordano Meacci, Francesca Serafini all’interno del Fulgor, una chiacchierata sul volume pubblicato da Einaudi che velocemente si è spostata sul film “Il principe libero” e successivamente (e inevitabilmente) sul cinema del Maestro Fellini. Assieme al libro è stato presentato, in tiratura limitata a 1.000 copie, un’edizione “speciale” del cd di “Rimini” curato dalla Editrice Interno4 in collaborazione con Sony Music. Il cofanetto, arricchito dalla copertina di Eron e da un libro di 80 pagine che raccoglie una serie di interventi “attorno” al lavoro di De André, è una piccola “perla” per appassionati e collezionisti.

Il concerto “Rimini canta Rimini”, all’interno di una Corte degli Agostiniani gremita all’inverosimile, ha messo in luce un certo provincialismo dei cantautori riminesi, chiamati a dare la propria voce ai meravigliosi arrangiamenti che il Maestro Federico Mecozzi, violino di Ludovico Einaudi, ha scritto e ha fatto eseguire ai 26 elementi dell’orchestra Rimini Classica.

Probabilmente penalizzati dalla scelta dei pezzi (ma non solo), Andrea Amati (il più deandreiano, vocalmente), Dany Greggio, NicoNote, Massimo Marches, Massimo Modula e Giuseppe Righini (“…sono loro stasera i migliori che abbiamo...”, “Giugno ’73”) hanno cantato tutta la scaletta del disco. Si parte con la traccia che dà il nome all’album e con gli artisti che interpretano una strofa a testa. Il risultato, tutto sommato, è passabile. Meno bene “Volta la carta”, eseguita a due voci, quella di Massimo Modula e quella di Francesca Airaudo. Ancora meno bene “Coda di lupo” di Righini e Greggio, forse per il livello qualitativamente troppo alto – e non è una colpa – delle musiche dell’orchestra. Arrangiamento “particolarissimo” quello di “Andrea”, che complessivamente trova un buon equilibrio nella voce di Marches. “Avventura a Durango” di Greggio non convince, così come “Zirichiltaggia” di NicoNote, pezzo in sardo. A Righini poi il compito di prendere per mano “Sally” (passabile) prima di “Parlando del naufragio della London Valour”, resa con efficacia e teatralità da Andrea Amati (ma, visto che si tratta di un pezzo parlato, poteva essere assegnata ad altri cantautori: la sua intensa vocalità poteva essere sfruttata meglio su altri pezzi).

“Folaghe”, strumentale, ha chiuso con morbidezza e delicatezza l’esecuzione dell’album.

Quasi a voler in parte scagionare la poco convincente performance delle voci riminesi – sarebbe bastata e avanzata l’orchestra -, non tutti gli artisti italiani chiamati a eseguire due brani di De André nella seconda parte della maratona (il concerto è durato oltre due ore e un quarto) si sono dimostrati all’altezza del compito.

Applausi per “I Ministri”, che hanno affrontato e superato la prova attraverso due pezzi meravigliosi e complicati raccolti da “Tutti morissimo a stento”, “La ballata degli impiccati”, bellissima, e l’altrettanto intensa “Inverno”. Bene Andrea Appino in “Hotel Supramonte”, meno in “Ho visto Nina volare”, nonostante il coretto di Petra Magoni. Federico Braschi non ha convinto con “La domenica delle salme” mentre in “Khorakhané (A forza di essere vento)”, impreziosito dall’assolo del violino di Federico Mecozzi, il risultato è stato soddisfacente. Alternato anche John De Leo, che ha eseguito una interessante “La canzone del maggio” ma che si è perso in troppi gigionamenti vocali con “Amore che vieni, amore che vai”. Stessa sorte per “Musica nuda”, Ferruccio Spinetti e Petra Magoni: dopo una raffinata “Disamistade” hanno offerto al pubblico una versione di “Bocca di rosa” accelerata e di dubbia resa.

Applausi a fine concerto, ovviamente. Un gesto “partecipativo” quasi dovuto, come se dietro al biglietto di ingresso ci fosse scritto, in maniera invisibile, che le mani si devono unire in maniera rumorosa. Meglio unirle, in preghiera. Sia essa “in gennaio” che “smisurata”.

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