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Titano, il fedele soldato di Pompeo

da Redazione

Gian Luigi Berti ha scritto tempo fa un libro, “Fiabe e racconti di San Marino”, un modo interessante per riscoprire, con il linguaggio dei più piccoli, i tanti misteri della Repubblica. Eccone uno curioso…

Gian Luigi Berti

 

di Alessandro Carli

 

“Tutti i grandi sono stati bambini una volta. Ma pochi di essi se ne ricordano”. Se lo è ricordato lo scrittore e aviatore Antoine de Saint-Exupéry (sua la frase, presa da “Il piccolo principe”) ma anche Gian Luigi Berti, che anni fa ha pubblicato per la casa editrice “La scuola un libro”, “Fiabe e racconti di San Marino” (il mondo incantato e misterioso che da secoli si muove intorno al monte Titano) e che fa parte, assieme a centinaia di migliaia di volumi, del patrimonio della Biblioteca di Stato della Repubblica di San Marino.

Tra i brani presenti nell’opera, ne abbiamo scelto uno, “Il segreto del mulino delle polveri”, che parla di un “mistero” della Repubblica.

 

IL SEGRETO DEL MULINO DELLE POLVERI

 

Foschino seppe una sera d’inverno perché il monte fu chiamato Titano. La nonna aveva invitato la sua amica Clorinda, una vecchia donna dagli occhi spiritati, magra e dritta come un cipresso. Era entrata avvolta nell’enorme scialle nero cosparso di fiocchi di neve, portando seco un odore acuto di freddo. Era una delle chete sere di gennaio quando la neve scende col bisbiglio e pare voglia fare un lungo discorso di giorni, gli uomini giocavano attorno al tavolo.

La mamma di Foschino era intenta a sistemare la casa per la notte, ed egli si era accovacciato sull’enorme poltrona, davanti al fuoco, vicino alla nonna, che doveva raccontare e ripetere tutte le storie, le leggende e le favole che conosceva.

Alla nonna non parve vero di farsi sostituire da Clorinda che, vivendo sola nella casa accanto, fra ricordi e fantasticherie, si diceva addirittura che parlasse spesso ad alta voce coi suoi antenati.

“Orsù, Clorinda, raccontare qualcosa a mio nipote che non ha sonno. Raccontategli la leggenda che vuole il monte chiamato Titano” esortò la nonna.

“Oh, non è una leggenda!” esclamò Clorinda, aggrottando le sopracciglia quasi si fosse offesa. “E’ la verità, signora Maria. I miei vecchi la sapevano e sono stati testimoni viventi”.

“Testimoni di cosa?” domandò Foschino che fremeva dal desiderio di ascoltare.

“Del ritrovamento…” disse Clorinda, indugiando un poco. “Io ero piccolina, ma ricordo ancora quando alcune persone, in fila, con le candele in mano perché era buio, si movevano lentamente attorno ad una buca lunga e piuttosto profonda, in un cortile della casa fra la porta della Rupe e il Cantone, vicino al ciglio del monte. Non dovevo vedere. Ma io ho visto tutto” esclamò con gli occhi che le brillavano di soddisfazione curiosa, come se vivesse ancora il mistero di quei giorni lontani.

“Perché non dovevate vedere?” domandò la nonna, “Perché era un segreto, che noi bambini non dovevamo conoscere per non svelare…” risposa la donna.

“Ma non è un segreto la storia del nome del monte” ribatté la nonna per costringere Clorinda a raccontare tutto. “Si sa che il nome Titano deriva dai Titani, discendenti da Titano, fratello di Saturno. Questi uomini mitologici, di grande corporatura, avevano accomulato rocce su rocce per creare una montagna al fine di scalare il cielo per assaltare Giove. Ma Giove, avvertito dalla vecchia Cibele, li fece ruzzolare tutti sulla terra. Così alla montagna è rimasto il nome di Titano”.

“Non è vero. Non è questa la storia, la verità è che quelle persone con le candele cercavano un tesoro nascosto…”.

“Un tesoro?!?” esclamò Foschino allungando le gambe di scatto da rannicchiato com’era. “E come sapevano del tesoro?”.

La donna, a cui le profonde rughe del volto coi riflessi disegnavano una specie di maschera quasi tetra, levò un gran sospiro come se dovesse tirare fuori dal petto le cose da raccontare. “Ricordate il mulino delle polveri sulla cima del monte presso la Porta della Rupe? In quegli anni era già stato abbandonato perché non conveniva più ai sammarinesi fabbricare le polveri da sparo utilizzando la forza del vento. Accanto ad esso, nella vecchia casupola del custode, viveva Biagio. Una notte Biagio bussò alla porta di casa nostra e fece alzare mio padre. Gli raccontò che da alcune notti sentiva dei rumori provenire dal vecchio mulino e perciò era bene farvi un sopraluogo. Trovarono difatti che qualcuno aveva rovistato dovunque sollevando mattoni dal pavimento e rimovendo alcune pietre dei muri. Intuirono che la cosa cercata era molto importante. Non seppero mai chi fosse a cercare, ma la curiosità indusse anch’essi a fare ricerche, certamente di giorno per prudenza. La loro curiosità fu appagata perché sotto una rustica colonna ad angolo trovarono un manoscritto appena leggibile. Vi si diceva che tanti anni prima era stata trovata una cosa, che non si capiva bene cosa fosse, e che era stata nuovamente sepolta in un luogo preciso per obbligo di coscienza dato il suo grande valore, e che per non correre in malefici doveva essere custodita. Biagio e mio padre pensarono a un tesoro, tuttavia dal giorno in cui portarono a casa il manoscritto non ebbero più pace”.

Foschino era di nuovo rannicchiato sulla poltrona e, stringendosi le ginocchia, col mento appoggiato sopra, ascoltava senza batter ciglio. Anche la nonna aveva smesso di sferruzzare e seguiva con attenzione il racconto.

“Di cosa avevano paura?” domandò Foschino.

“Non sapevano di cosa si trattasse. E temevano la vendetta di colui che intensamente aveva cercato il manoscritto e non lo aveva trovato”.

“E allora cosa fecero?” domandò ancora Foschino.

“Aspettarono che Biagio non udisse più i rumori la notte nel vecchio mulino delle polveri. E questo avvenne dopo circa dieci giorni”.

“Ma non cercarono di vedere chi fosse costui?” chiese Foschino.

“La prudenza e il timore, figliolo, consigliarono di non farlo. Certi misteri era meglio non scoprirli di più. Chi potevano trovarsi di fronte? Un’anima buona o un dannato? Mia padre e Biagio erano uomini semplici e timorosi, ed avevano già scoperto troppo”.

“E non seppero mai chi faceva le ricerche?”.

“No, mai”.

“E gli uomini con le candele?” interrogò Foschino.

“Li vidi in seguito, una sera dopo il tramonto. Accadde che il documento indicasse un punto proprio del cortile di casa mia, vicino al ciglio del monte. Tutti in casa erano turbati e non si decidevano a fare nulla, finché Biagio si consigliò con una donna che aveva fama di indovina. (…). Biagio non capì gran ché del responso (…) e coll’aiuto di alcuni amici decise di scavare. Cominciarono all’alba, e noi bambini fummo sempre tenuti lontano. Ma ascoltavamo con attenzione il rumore costante degli arnesi contro il suolo. Giunta la sera, di nascosto dai miei fratelli, mi alzai e andai a spiare da una finestra che dava proprio sul cortile. Dall’alto ho visto tutto…”.

La donna chiuse gli occhi come se dovesse fissare meglio nella mente figure e oggetti da descrivere. Foschino era immobile come una pietra e la guardava intensamente. La nonna prese e ravvivare la fiamma vibrando col ferro piccoli colpi ai tizzoni e disponendoli con altra legna per alimentare il fuoco.

“Cosa trovarono dentro la buca?” domandò Foschino.

“Una tomba la cui copertura in pietra era lunga più del normale e pensatissima. Quando la sollevarono apparvero agli occhi di tutti delle ossa umane ben conservate, con una spada, un elmo, uno scudo, alcuni piccoli vasi, ed oggetti che forse erano preziosi ma che nessuno toccò”.

“Chi era stato sepolto?” domandò la nonna.

“Fu tradotto uno scritto scolpito in latino sulla pietra: Qui giace Titano, fedele soldato del gran Pompeo, a gloria imperitura” disse Clorinda, recitando con una cantilena quasi fanciullesca. “Ecco perché il monte fu chiamato Titano da tempo immemorabile, e già prima delle venuta di Marino”.

“E gli uomini con le candele?” chiese ancora Foschino.

“Erano Biagio, mio padre e gli altri amici fidati, i quali la notte stessa richiusero la tomba con religioso rispetto, Anche il documento fu riposto dov’era, sotto la colonna ad angolo nel vecchio mulino delle polveri sul ciglio del monte.

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