Home categorieCultura Visto per voi alla “Regina” di Cattolica: due recensioni di “Pinocchio” di Antonio Latella

Visto per voi alla “Regina” di Cattolica: due recensioni di “Pinocchio” di Antonio Latella

da Redazione

Le parole di Teresio Troll e Aurora Castro, in platea per assistere alla messa in scena del testo di Collodi.

 

C’era una volta un pezzo di legno. O meglio: c’era una volta che è un pezzo di legno. Grande anche!

Così inizia il “Pinocchio” di Antonio Latella, in scena alla Regina di Cattolica, con un gran bell’impianto scenico che sosterrà lo spettacolo per tutti i 160 minuti. Un tronco gigantesco e una pioggia incessante di trucioli continui come le parole sciorinate da Pinocchio. E’ un Pinocchio frenetico tra giochi e balbuzie e filastrocche e citazioni (Dante, Shakespeare etc.) che crescono come il suo naso e che non mentono rispetto al testo di Collodi. A volte però si tratta di citazioni troppo lunghe o troppo ripetute o semplicemente troppe che tra scontri e grida e urli non dicono nulla di nuovo né di vecchio.

Christian La Rosa (Pinocchio) è molto bravo, fisicamente attentamente instancabile e anche gli altri offrono un preciso spettacolo, dal terzetto della commedia dell’arte al ‘solo’ sul ruolo dell’attore di Massimiliano Speziani dove la neve si ferma e arriva il silenzio. Recitare, svelarsi, togliersi il legno di dosso e la pelle e dire, urlare, finalmente che le bugie sono quelle che ti impongono da bambino e nessun naso che cresce. Le bugie nascono dal mondo costruito dai grandi, tutti quanti.

Bravi, certo, e una bella regia, eppure mi chiedo: perché farlo tutto? Sarà proprio la troppa volontà di riprodurre il testo che mi lascia indifferente? Non so… ma il troppo correre in scena di parole e persone mi induce a pensare che ci sia un vuoto da colmare… un vuoto teatrale, qualche battuta in più per far posto alle figure minori. In coda (al pescecane) l’incontro del vecchio Geppetto con un ex-burattino che sembra Tiziano Ferro. Resta comunque un bel percorso di due ore e mezza, una folgorante PaesedeiBalocchi Discodance e momenti di suggestione tutta teatrale. Si chiude il sipario e ancora il tronco spunta dalla tenda. Il naso c’è!

 

Teresio Massimo Troll



Andate alla voce sognare, e in un vocabolario qualunque leggerete pressapoco questa frase: “Immaginare che qualcosa possa accadere, vedere, o prevedere”.

Da piccoli quando ci leggevano una favola, quel mondo altro, tanto distante e onirico diventava per un attimo pure il nostro. S’incarnava nelle nostre anime fino a farci commuovere o ridere.

La grande favola dell’umanità, del popolo che narra e si narra attraverso simboli e principi etici. La grande tradizione orale della favola orientale, di Esopo fra tutti.

Al Teatro della Regina, il 24 novembre, è andato in scena “Pinocchio”, regia di Latella.

Una voce dall’altoparlante ci comunica che lo spettacolo durerà 160 minuti. Così ti metti comodo e la scena si apre finalmente con l’immagine di un tronco imponente in bella vista, probabilmente simbolo del famigerato naso. La fata soffia in lui la vita e il tronco nelle mani di Geppetto diventerà l’eterno bambino, Pinocchio.

Inutile narrare la storia, certamente la compagnia resterà sempre molto fedele al testo, però manca di un aspetto evidentemente morale, che è il sentimento. Al di là della ricerca sperimentale: gli attori per tutto il tempo si sono accaniti contro il povero burattino, rendendolo incapace di una vera resurrezione.

Non sono mancati insulti corali e parolacce, come non direbbe mai il Pinocchio dei nostri sogni e poi strani fuori scena con musiche da rave. E così invece di avere davanti i narratori autentici di un’autentica storia, a un certo punto si ha l’impressione solo di vedere degli attori, dei bravi attori, impregnati solo d’ego e di una forte tecnica.

Se si cambia punto di vista per un momento, come ci ricorda Speziani (Geppetto), a metà storia, interrompendo la narrazione, resta solo il silenzio. Ma in quel silenzio io poco ho sentito stasera dei sogni d’un bambino e delle favole.

Non c’è espiazione per Pinocchio. Nessuna gioia, verrebbe da gridare. Gli attori non solo trasfigurano le parole rendendole cieche e impertinenti, ma anche la morale e l’antico cuore della favola.

 

Aurora Castro

Forse potrebbe interessarti anche:

Lascia un commento