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San Marino, memorie e parole “Pieve” d’amore

da Redazione

Il libro di Renzo Broccoli e i 27 racconti che compongono il volume scritto dal prof. Giuseppe Rossi e letti da Patrizia Bollini: la storia dell’edificio religioso e le tante suggestioni che ha saputo suscitare.

Patrizia Bollini

 

di Alessandro Carli

 

Dalla parola detta a quella scritta (“La nuova Pieve di San Marino” di Renzo Broccoli, edito da Ente Cassa di Faetano e frutto di un prezioso ritrovamento, nelle cantine di Villa Manzoni, un rotolo di disegni di architettura firmati da Giovanni Antonio Antolini), dalla parola scritta a quella detta (“La pieve costruita sull’abisso”, il libro di racconti del professor Giuseppe Rossi presentato a fine luglio in forma di reading da Patrizia Bollini). In quest’estate 2017, la Basilica della Repubblica è tornata al centro degli interessi dell’arte. Nel luogo dove oggi la si può ammirare, già nel IV secolo sorgeva una pieve dedicata a San Marino diacono. Il primo documento che attesta l’esistenza della pieve è del 530, “La Vita di San Severino”, a opera del monaco Eugippo e l’altro documento è il “Placito Feretrano” dell’885. Il primo documento che riguarda direttamente la pieve di San Marino è invece del 31 luglio 1113.

 

LA NUOVA PIEVE DI SAN MARINO


Broccoli, a Villa Manzoni nel 2016, espose un’approfondita ricerca sulle fasi che avevano caratterizzato la demolizione e la ricostruzione della Basilica.

Era la prima metà dell’800, e la piccola Repubblica era attraversata da fermenti culturali e da nuove aperture verso l’esterno anche grazie alla presenza di Bartolomeo Borghesi ed alle personalità che frequentavano la sua casa. Tutto questo ebbe influenze estetiche e architettoniche anche sulla Pieve, dimostrate per altro dai disegni di Giovanni Antonio Antolini, uno dei più grandi architetti dell’epoca. “Nel 1807 – scrive l’architetto Broccoli – viene presa la decisione di abbattere l’edificio, non c’è più niente da fare, l’unica soluzione e la ricostruzione. Nel 1811, dopo diverse discussioni su come fare e dove reperire i soldi, il Consiglio Principe e Sovrano decide di chiamare un tecnico che spiegasse quale soluzione prendere e quanto essa costasse. Qui compaiono Ghinelli e Zoli. Fra i due, vince la tesi di Ghinelli, il quale presenta un suo progetto, fa un rilievo che è conservato presso l’Archivio di Stato. Si tratta di un progetto essenzialmente settecentesco, quindi con la sua bella facciata a salienti modanati, con tre navate di cui la principale più alta: molto simile dal punto di vista planimetrico all’aspetto che conosciamo oggi, ma più ridotto nelle dimensioni”.

La posa della prima pietra è dichiarata nel verbale del 23 luglio 1826. In realtà, sottolinea Broccoli, “fu posata il 1 luglio in quanto era Capitani Reggenti Giovan Battista Onofri e Marino Berti”.

L’architetto poi rivela un gustoso aneddoto. “La prima pietra ha due facce. Su uno dei lati si legge la data, i nomi dei Capitani Reggenti e il nome dell’arciprete. Sull’altro lato c’è invece la dedicazione del rito solenne del Vescovo Antonio Belli. Vediamo anche che, per ben due volte, viene citato il termine ‘fondamenta’. Questo ci toglie ogni dubbio: la Pieve è stata ricostruita dalle fondamenta”.

 

LA PIEVE COSTRUITA SULL’ABISSO


Impossibile invece riassumere i 27 racconti che compongono il libro del professor Rossi, “la testimonianza più concreta dell’attaccamento e dell’amore che Giuseppe Rossi nutriva per San Marino e per i sammarinesi – scrive Laura Rossi -. Amore che non gli impediva di raccontarne le vicende o descriverli con una sottile vena di ironia: anzi, proprio il distacco che l’ironia porta con sé, gli consentiva di rappresentarli e di farli conoscere nella loro vera essenza di eroi di un tempo passato e di una quotidianità, che sopravvive ormai solo grazie alla sua penna”.

Patrizia Bollini ne ha scelti 10, cinque per ogni serata (7 e 21 luglio) e uno lo ha voluto condividere con i lettori di Fixing: “Gigiùl non cerca più la libertà”.

Non una lettura integrale, bensì una versione “scenica”, sulla quale l’attrice sammarinese ha praticato una serie di “tagli”. L’incipit però è rimasto intatto: “Esce dalle acque dal mare Adriatico, la luna, ed è una tenue macchia bianca sull’azzurro del cielo; nessuno si accorge di lei, poiché il sole non è ancora tramontato”. In questo panorama, si staglia la figura del vecchio Bistino, che “se ne sta sotto i tigli”. Sente un gruppo di ragazze cantare in mezzo alla strada, e dice maliziosamente “Ai miei tempi avevamo altro da fare”. Bistino vorrebbe parlare con qualcuno, raccontargli cosa faceva lui quando era giovane. Ci sarebbe Fafino, ma Fafino è impegnato a incontrare la sua bella, che lo aspetta “sotto la quercia della Cellabella” (quercia che Laura Rossi descrive così: “Simbolo di tenacia e ostinazione, nonché di cortesia” e ospitalità: prima di essere soffocata dalla strada e dall’asfalto, aveva offerto ombra e ristoro ai soldati di Garibaldi, giunti in Repubblica alla fine del luglio 1849, e aveva, per secoli, coperto dagli sguardi indiscreti le dolci frequentazioni notturne di giovani coppie di innamorati”). Insieme, giaceranno sul campo di spighe di Sanzio. Sulla quercia intanto si ferma un chiù, che canta e impedisce di dormire al povero Zelio.

Il ragioniere Zelio, pennellato dal professor Rossi come “la colonna dell’amministrazione statale, il mago dei bilanci preventivi e di quelli consuntivi, l’impassibile funzionario misurato e corretto nelle sue espressioni”, va alla finestra e dice al chiù, con quanto fiato ha in gola, “il fatto suo”.

Sordo alle parole umane, l’uccellino prosegue nel suo canto. Zelio non ci vede più e “nel silenzio della notte rimbombano due schioppettate”. Il chiù svolazza un po’, poi ritorna e riprende il suo verso.

A metà della notte, Gigiùl “fa sentire la sua voce tonante”: è assalito da immagini, ma anche da un misterioso “gran pacco di spaghetti che sua moglie ha messo sull’armadio in camera da letto” portato direttamente dalla moglie del pizzicagnolo. “Gli spaghetti potrebbero essere tanti da pesare quanto il monte Titano” esclama. Già, la moglie del pizzicagnolo. Si sa che è una “bella forlivese” e per Gigiùl ha una relazione con il professor Cicala. “Ma che lei mi debba mandare gli spaghetti per pagare il mio silenzio, questo è troppo” aggiunge. Così si dirige sotto le finestre della donna, e assolve “il suo dovere di pubblico mentore”. Nel ritornare a casa, si accorge di non essere più quello di prima. Questa accadeva a San Marino, nel plenilunio di giugno. Una sera salì sino a piazza della Libertà. Ci salì con il suo solito outfit, scamiciato e arruffato. Sotto la statua, per trenta minuti chiamò a gran voce la libertà. Si mise a cercarla ovunque, sotto le panchine, negli angoli della piazza, ma non ebbe risposte. All’indomani, fu portato in manicomio. Una volta uscito, non fu più lui: lo videro seduto sui gradini della piazzetta, sotto l’arco della porta del Loco, oppure sul muretto dello Stradone, sempre in silenzio.

“Gigiùl non cerca più la libertà”.

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