Home FixingFixing Marco Vincenzi: “La Fotografia – ti dico come la penso”

Marco Vincenzi: “La Fotografia – ti dico come la penso”

da Redazione

Sammarinese d’adozione, dal 2011 al 2013, ha svolto attività didattica per il Master di Alta formazione per l’immagine contemporanea di Fondazione Fotografia a Modena.

Marco Vincenzi

 

di Alessandro Carli

 

“La Fotografia – ti dico come la penso” è il titolo, un po’ provocatorio, con cui Marco Vincenzi ha inaugurato a fine giugno un ciclo di incontri a “Villa Eva” di Verucchio (dimora di un’altra fotografa, Patrizia Zelano), luogo da cui si può ammirare lo skyline di San Marino, quel Monte Titano che da oltre 20 anni è la terra d’adozione del “sociofotografo”. Titolo un po’ provocatorio, che però cela una ferma verità: l’approccio all’immagine è soggettiva, così come la poetica di ogni fotografo. Riassumere oltre 150 anni di “storia della fotografia” potrebbe risultare noioso. Diamo un punto di partenza: 1839. Fu nel 1839 che la “scoperta” di una tecnica per “dipingere con la luce” fu resa nota con toni entusiastici su “Gazette de France” e nel “Literary Gazette”. Non si può che partire dal titolo della “lectio” per dialogare con Marco Vincenzi.

 

Come la pensa?


“Il titolo dell’intervento, che giovedì 30 giugno ho realizzato a Verucchio, è stato dettato dalla necessità – la mia – di fare il punto su una questione che in apparenza potrebbe sembrare inutile o scontata, ovvero la domanda: “che cos’è e quale significato assume la fotografia, oggi, per coloro che intendono farne una comunicazione artistica o per chi, invece, la intende usare nella propria dimensione individuale”. Tante persone (ormai quasi tutti) fotografano, con tecnologie e dispositivi più o meno professionali o con più accessibili smartphone, ma sono pochi coloro che riflettono sul significato di questo loro agire e sul prodotto di queste azioni. In particolare mi riferisco a coloro che praticano la fotografia come amatori o, come alcuni dicono, per esigenza di espressione personale. Sono persone attratte dallo strumento fotografico e dalle fotografie di quelli che definiscono essere “grandi fotografi”; persone che partecipano a corsi, da quelli di base in avanti, fino ai workshop con i cosiddetti fotografi “maestri”, senza mai domandarsi, in modo propedeutico al proprio percorso, con che cosa hanno deciso di avere a che fare o che cos’è la fotografia, appunto, come è nata e come oggi si continua ad affermare nella nostra società, per quale motivo, con quale significato. Delle domande, a mio parere, fondamentali per essere consapevoli di che cosa si sta facendo mentre si fotografa, soprattutto se quest’azione ha l’ambizione di essere un gesto di espressione personale e, ancor di più, se in ambito artistico”.

 

Oltre che in letteratura (Pirandello), anche in fotografia si parla di dualismo tra verità e finzione…


“Come ho tentato di sostenere e di spiegare nella mia relazione, questi due termini indicano una distinzione che per la fotografia è invece un “confine” da percorrere, mantenendo i due lati in un qualche modo interconnessi. La fotografia nasce come esigenza scientifica quindi con il presupposto di affermare la verità delle cose, degli eventi che accadono o che vengono attraverso essa rilevati, della “realtà” che osserviamo o percepiamo, ma al tempo stesso diventa sin da subito strumento di finzione per coloro che, già dediti alla Pittura, quindi all’Arte, trovarono in essa un supporto tecnico che potesse sostituirsi all’abilità realizzativa nella riproduzione verosimile della Realtà e che, dovendo ampliare questa prerogativa e rendere le proprie creazioni “artistiche” doveva anche arricchirla della finzione, appunto, cioè della possibilità per il soggetto che agisce artisticamente il suo essere creativo, operando delle costruzioni sulla realtà osservabile”.

 

Fotografia scientifica, fotografia pittorialista, fotografia come reportage. Qual è stata, per lei, quella più importante?


“Quando ho iniziato a fotografare, come molti, da autodidatta, non mi posi tante domande e mi feci orientare dalle fotografie che trovavo nelle riviste o sui libri di fotografi affermati, senza però comprenderne la differenza ed i presupposti teorico-metodologici (ci si sofferma solo sulla tecnica). Se dovessi utilizzare un termine, direi, anche se impropriamente, iniziai a fotografare come un “pittorialista”, perché amavo ritrarre persone, in particolare ragazze, cercando di farle apparire più “belle” di quello che apparivano di persona, in modo che potessero compiacersi in quelle mie fotografie. Per fortuna è stato solo un primo approccio, dettato dal desiderio di sentirmi dire che ero “abile come un artista”, ma ho poi scoperto che si trattava di una inutile gratificazione e che la Fotografia (e l’Arte) erano già a quei tempi ben altra cosa. Non ho mai ritenuto significativa per me la fotografia di reportage, anche se fotografavo per strada e raccoglievo immagini di situazioni e di persone, con l’intento di “impossessarmene”. Oggi posso dire che anche in quel frangente stavo operando una funzione fondamentale e identitaria della fotografia, ovvero il suo essere “concettuale”. Ho subito anch’io il fascino di una bella composizione o dell’espressività dei toni del bianco e del nero, ma come della socializzazione religiosa, anche se a fatica, me ne sono liberato. Oggi credo di essere maggiormente consapevole del mio rapporto e dell’uso che faccio della fotografia”.

 

La fotografia è una forma della modernità. Anche della contemporaneità?


“Bella domanda. La fotografia è sicuramente una forma della modernità. Non è un caso che prenda forza nel mondo dell’arte dopo e insieme alla rivoluzione operata dalle Avanguardie dei primi del ‘900, ma di modernità si è iniziato a parlare anche molto prima quindi sarebbe necessario distinguere tra le diverse definizioni di “modernità” associabili alla fotografia. Di sicuro possiamo parlare di fotografia e modernità pensando all’automatizzazione che questo mezzo tecnologico mette in gioco nel suo agire, come quello di catalogazione o dell’ossessione di uno sguardo che tramite essa si è un poco de-soggettivizzato, fino a poter parlare di documenti e di archivi, argomenti che in Arte (e con essa, in Fotografia) sono molto in auge nella nostra contemporaneità. Per non parlare dell’uso globalizzato (proprio della società contemporanea) della fotografia “privata” ad uso pubblico, sui social, con internet e i telefonini”.

 

L’avvento del digitale ha influito sul processo di “dilettantizzazione”?


“Il termine “dilettante”, anche se non in modo esclusivo, lo si può contrapporre a quello di “professionista” quindi tutto ciò che rende più accessibile, maggiormente fruibile, perché più semplice nell’uso, si può dire che influisca sul processo di massificazione, globalizzazione o “dilettantizzazione”, che dir si voglia. Così, come le piccole macchinette istantanee e automatiche prodotte inizialmente dalla Kodak, le Brownie, poi diventate oggetti prodotti da tante altre marche con altrettanti altri nomi, perché richieste dal mercato, svilupparono questo processo, così la tecnologia digitale e con essa tutti i semplici “filtri” predefiniti, che “creano” immagini percepite come artistiche e realizzabili con un semplice click. Quindi rispondo affermativamente, il digitale ha favorito una ripresa e un aumento del processo di “dilettantizzazione” sia da un punto di vista numerico, sia come fenomeno di rilevanza sociale”.

 

La Fotografia è comunicazione artistica o è una dimensione individuale?


“Per quanto mi riguarda, questa è una domanda molto semplice. La fotografia è comunicazione artistica quando soddisfa almeno cinque requisiti fondamentali: 1. deve porre «domande» anziché cercare risposte; 2. deve produrre innovazione creativa nella consapevolezza della inevitabilità della «finzione»; 3. deve avere come presupposto una teoria e un metodo, affinché sia possibile assegnare significati alle domande e alle costruzioni che produce; 4. deve essere una “Osservazione di second’ordine”, cioè una osservazione riflessiva rispetto a ciò che viene rilevato; 5. deve orientarsi alla ricerca di una forma della “complessità”, nel rispetto della scelta tra le possibilità che questa mantiene sullo sfondo. Ma in altre circostanze è una dimensione individuale, cioè quando viene utilizzata dagli individui, dalle singole persone, come strumento di scoperta, costruzione, affermazione della propria identità, quando produce consapevolezza di sé, del mondo e degli altri, una coscienza soggettiva e a volte riflessiva. Oppure quando permette l’affermazione della propria esistenza, che passa spesso attraverso il riconoscimento, da parte di sé e/o da parte degli altri, e la memoria attraverso la possibilità che offre di costruire una propria storia personale e sociale”.

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