Home FixingFixing L’Aquila e Cento, 900 colori di un Arcobaleno

L’Aquila e Cento, 900 colori di un Arcobaleno

da Redazione

Sino a ottobre le opere d’arte custodite nelle città colpite dal sisma. In esposizione anche Fontana, Sassu, Guttuso, Capogrossi e Pirandello.

Capogrossi

 

di Alessandro Carli

 

“Una domanda è come un coltello che squarcia la tela di un fondale dipinto per permetterci di dare un’occhiata a ciò che si nasconde dietro” (Milan Kundera). L’opera d’arte che sulla carta (o meglio, su tela) potrebbe sintetizzare al meglio i danni provocati dai sismi che hanno devastato le città di Cento e L’Aquila – unite, in tempi diversi, dallo stesso dolore – è uno dei celebri “tagli” di Lucio Fontana che, assieme ad altri 41 dipinti, comporrà il corpus di “Arcobaleno 900”, la mostra che riunisce alcuni pezzi ospitati nel Museo Nazionale d’Abruzzo de L’Aquila e nella Galleria d’arte Moderna di Cento e che approda, dall’11 giugno al 1° ottobre anche nella Repubblica di San Marino.

Organizzata dagli Istituti Culturali in accordo con l’Associazione no profit “L’Aquila siamo noi”, il “viaggio” a tappe – che sottende come una ricostruzione possa iniziare dai colori e dalle poetiche degli artisti – permetterà ai visitatori che si recheranno negli spazi del Museo di Stato – Palazzo Pergami Belluzzi (Piazzetta del Titano – Città di San Marino) di incontrare anche le straordinarie maestrie di Renato Guttuso, Remo Brindisi, Mino Maccari, Aligi Sassu e Giuseppe Capogrossi.

 

ARTISTI E PERIODO


Trenta artisti, più o meno, che raccontano il proprio tempo, quello che spazia dall’immediato Dopoguerra (1945) sino all’anno delle contestazioni (1968) in cui convergono una moltitudine di stili, spesso difficilmente catalogabili o apparentemente distaccati: arte figurativa, astratta e informale, ma anche gli echi cubisti e futuristi, le diffidenze e gli scontri tra astrattismo e figurazione, tutti attraversati dall’urgenza di “raccontare” – sottile fil rouge che unisce idealmente anche le due città colpite dai terremoti – la propria realtà.

Ecco il parziale taglio temporale della pittura di Bruno Saetti, che dal realismo espressionista che si incontra ne “Il ragazzo del pesce” del 1949 (L’Aquila) passa successivamente all’astrattismo de “Il sole sul grigio” (1968) proveniente da Cento. Sole che, assieme alla figura dell’angelo, caratterizzerà la sua ultima produzione: elementi che trovano uno spazio intimo, di speranza, se pensati a quello che è accaduto a Cento e a L’aquila.

Giuseppe Capogrossi – uno dei Maestri dell’informale italiano assieme ad Alberto Burri e Lucio Fontana – si racconta in “Superficie XXX” dove le tre X, che inizialmente possono essere avvicinate alla forma curva a tridente che si espande su una superficie spaziale dinamica nel gioco cromatico di bianchi e neri, possono essere lette anche come “30esimo (XXX°) secolo”.

Si rivolge al domani anche il “taglio” di Lucio Fontana che già nel titolo dell’opera degli anni 1959-1960 -“Concetto spaziale (Attesa anno 2022)” – sembra “promettere” una data in cui l’attesa (e quindi la ripartenza della vita sociale) si terminerà.

Sono vie di fuga, quelle in cui, immancabilmente, si appoggia e scruta l’occhio dell’osservatore. Sono attese, come quelle che attraversano, innervandolo, “Aspettando Godot” di Samuel Beckett. Un’attesa che forse non accadrà nulla.

A proposito dei suoi celebri “tagli”, l’artista – che in vita parlò assai poco e produsse moltissimo – una volta disse: “È l’infinito, e allora buco questa tela, che era alla base di tutte le arti, ed ecco che ho creato una dimensione infinita, un buco che per me è la base di tutta l’arte contemporanea, per chi la vuol capire. Sennò continua a dire che l’è un büs, e ciao…”.

A leggere i titoli delle opere degli altri artisti “ferraresi”, è facile ritrovare – è questo il grande potere dell’arte, che si fa portatrice, sempre, di un messaggio che supera il limen dell’hic et nunc – una serie di elementi che si fanno portatori di una parola “altra”, di una “attualità” con i dolori che le due città hanno subito. E’ il caso di Mino Maccari” e il suo “In memoria di Aroldo Bonzagni” (o in memoria di tutti i Bonzagni che non ci sono più, che sono rimasti sotto le macerie), della “Meditazione” di Pompeo Borra (quante riflessioni su ciò che è accaduto!), ma anche de “L’uomo dell’abisso” di Remo Brindisi – quell’abisso che all’improvviso si è spalancato sulla quotidianità degli abitanti – e un “Nudo” di Pietro Annigoni, lì dove la nudità supera l’erotismo, lì dove il corpo della donna spogliata si innanza a elemento totemistico di una condizione umana. Di chi ha perso tutto, e non ha nulla con cui coprirsi. Sfilano poi – sempre a tema – il “Vaso verde con cardi” di Giovanni Omiccioli – ci saranno ancora i vasi sui balconi? -, i “Muri ciechi” di Sante Monachesi (muri che sono rimasti impressi negli occhi delle persone, e che chiedono di tornare a proteggere le famiglie), il “Bianco e nero” di Carlo Corsi (quasi che i sismi si siano portati via i colori e i sorrisi), i “Fiori secchi” di Ennio Morlotti (facile avvicinarli alle vite di chi ha perso la linfa, il lavoro, gli affetti) e “L’immagine sospesa” di Emilio Scanavino, che ha perduto le proprie fondamenta.

L’Aquila apre le ali invece sulle “Bagnanti” di Fausto Pirandello (bagnanti di lacrime?) e sul “Paesaggio”, profondamente mutato dopo le scosse. Sempre dall’Abruzzo, “Jouy en Josas” di Orfeo Tamburi, la “Foresta” che Renato Guttuso dipinse nel 1949, anch’essa portatrice di un messaggio ben preciso, quello della relazione tra città (le due città?) e natura (non sempre così benevola, anzi: e i sismi lo hanno confermato).

Non vanno poi dimenticate le “Donne” di Borra con i loro visi antichi e armoniosi, che sembrano chiedere risposte, la “Finestra sul giardino” di Francesco Menzio, “La ricamatrice” di Fulvio Pendini, il “Ponticello rosso” di Carlo d’Aloisio (forse rosso di sangue), il “Paesaggio sulmonese” di Italo Picini, che sicuramente ha cambiato i suoi connotati, e le “Baracche in periferia” di Omiccioli, le “promesse” fatte dalla politica italiana di donare quanto prima alloggi dignitosi.

Al “taglio” di Lucio Fontana, risponde Mario Mafai che, con “Natura morta (Carota e bottiglia)”, ha cristallizzato l’attimo. Quello che rimane dopo il passaggio di un treno, di un terremoto. Il silenzio, con cui viene celebrata la morte della Natura. E – questa, alla fine, è la vera magia dell’arte – la prospettiva di una rinascita.

Forse potrebbe interessarti anche:

Lascia un commento