Home FixingFixing Francesco Guccini: “Ho scritto canzoni migliori di ‘Dio è morto’…”

Francesco Guccini: “Ho scritto canzoni migliori di ‘Dio è morto’…”

da Redazione

Il cantautore si è raccontato a Cesena. Il 10 giugno invece sarà al Teatro Titano.

 

di Alessandro Carli

 

“Due anni dopo”, o poco più (per la precisione, sono più del doppio: era novembre 2012 quando al giornalista di “Repubblica” Francesco Gilioli, Francesco Guccini annunciò il suo addio alle scene: “Ci si deve ritirare quando si è arrivati al massimo delle proprie possibilità. Continuerò a dire quello che penso ma in prosa, scrivendo libri”), il Bardo è tornato a incontrare il pubblico di Cesena (per ascoltarlo a San Marino bisogna aspettare il 10 giugno quando incontrerà il pubblico al Teatro Titano quando il Quartetto d’Archi Ensemble Marino Capicchioni eseguirà le sue musiche. Ingresso gratuito sino a esaurimento posti). Fedele alla sua promessa, il cantautore “cresciuto tra i saggi ignoranti di montagna / che sapevano Dante a memoria e improvvisavano di poesia…” il 13 maggio ha “limitato” la sua partecipazione a 50 minuti di parole, lasciando ad alcuni componenti del suo gruppo storico – Juan Carlos “Flaco” Biondini chitarra e voce, Vince Tempera alle tastiere, eccetera – il compito di “cantare” le sue canzoni. Una delusione per i fans, più di qualche personale dubbio sul prolificare della formula di questi format che prevedono la partecipazione di alcuni intellettuali “a pagamento” a serate di “amarcord”, di “interviste pubbliche” seguite dall’esibizione di “quasi cover band” (o meglio, della band ufficiale).

Francesco Guccini, comunque, oggi è un bellissimo uomo di 77 anni – vissuti, davvero -, dalla voce affaticata ma dalla mente sempre acuta, fedele al suo modo di raccontare, attento ai luoghi. Si parte da una celebre poesia di Marino Moretti: “Piove. È mercoledì. Sono a Cesena, ospite della mia sorella sposa, sposa da sei, da sette mesi appena. Batte la pioggia il grigio borgo, lava la faccia della casa…”, quasi a voler rimarcare – ovviamente in maniera “alta” – la sua presenza sulle sponde del fiume Savio.

Il resto, è un viaggio tra presente e soprattutto passato. “La canzone d’autore, negli anni, è profondamente cambiata. La mia è figlia di un’epoca che non esiste più. Anche il mondo discografico non è più lo stesso: una volta operavano sul mercato tante etichette, oggi invece è tutto gestito da tre o quattro major. Quando ho iniziato non esistevano i talent: ci si esibiva nelle balere o nelle osterie. Sono mutati anche i rapporti tra i cantanti e le case discografiche. Anche per quel che concerne i ‘tempi’ e le ‘possibilità’. Se oggi il primo disco ‘funziona’, si ha la possibilità di registrare il secondo. Se il disco d’esordio non funziona, il secondo album viene fermato. Una volta invece una casa discografica scommetteva su un artista e gli garantiva tre o quattro long playing”.

Si passa poi ai titoli, ai pezzi più celebri. “Dio è morto” è tra le canzoni che sono state inserite tra quelle che, per i suoi contenuti, dovrebbero essere insegnate nelle scuole. “Ho scritto canzoni migliori, come ad esempio ‘Signora Bovary’, che non è né tra quelle ‘segnalate’ né tra le preferite dal pubblico”. Molto più conosciuta è invece “Auschwitz”, che da poco tempo per Guccini non è solo una canzone ma anche un luogo. “Nel 2016, per la prima volta, mi sono recato ad Auschwitz. Dopo una notte in bianco, appena sceso da treno sono caduto a terra come un coglione. Il braccio, lì per lì, non mi faceva male. Speravo che fosse solo una botta”. Guccini poi è stato accompagnato a fare una serie di esami, che hanno riscontrato una frattura lievemente scomposta alla spalla destra, sotto la testa dell’omero. “Fa strano andare all’ospedale di Auschwitz” ha spiegato.

“Per l’occasione abbiamo registrato una versione di ‘Auschwitz’ alla ‘prima maniera’, davvero brutta”. Lo scorso settembre, in occasione di una due giorni che Porretta Terme ha dedicato a Guccini, era stata inserita in un documentario. “Fortunatamente qualcosa è andato storto e non si sentiva l’audio” ha spiegato prima di soffermarsi sulla genesi della canzone. “L’ho scritta nel 1964. Certi argomenti, prima di allora, non erano mai stati trattati prima”.

Poi, l’infanzia. La sua, quella del dopoguerra e degli Appennini tosco-emiliani. Il rapporto tra genitori e figli, quello che ha con la carta e la penna. “Oggi le mamme sono molto più apprensive. Io vivevo vicino a un fiume, mia madre avrebbe sofferto tantissimo”.

“Da piccolo volevo fare il giornalista – ha poi raccontato -. Volevo scrivere. In quinta elementare mio padre andò a parlare con il mio maestro, che gli disse che ‘ero un cane’. Un uomo ‘positivista’. Quando non ero più un giovincello, ho scritto per ‘La Gazzetta di Modena’. Ricordo ancora i tipografi che lavoravano con una bottiglia di latte sul tavolo per disintossicarsi dal piombo. Sognavo di fare il giornalista alla maniera degli americani. Il mio caporedattore mi disse di fare un pezzo sulle vocazioni religiose. Me lo fece riscrivere tre volte!”.

Guccini poi ha rivelato che il suo approccio con i computer è iniziato negli anni Ottanta, “quando stavo scrivendo un libro sul dialetto di Pavana. Era un pc olandese. Sono una persona disordinata, che perde tutto. Sul computer invece rimane tutto lì. Come mi disse Umberto Eco, anche il mezzo con cui scrivi influisce sulla scrittura. Quando componevo le canzoni, ho sempre preferito la carta e la penna”.

Sul palco poi, non mancava mai il vino. “In bottiglia però, non nel fiasco. Il fiasco è più difficile da maneggiare”. Tra i suoi musicisti, Vince Tempera e Flaco Biondini. “Vince l’ho conosciuto alla stazione di Modena. Dovevamo andare da un impresario a Novellara per parlare con i Nomadi. Scese dal treno con i suoi capelli africani e mi chiese dov’era l’automobile. Io gli risposi che non avevo nemmeno la patente. Ci vennero a prendere”.

Flaco invece gli venne presentato a metà degli anni Settanta da Deborah Kooperman, cantautrice e chitarrista dei primi album di Guccini. Parlando di vino, “Flaco mi disse che non beveva. Poi invece ha imparato a darci dentro”.

Ma è il mondo delle cose perdute, quello a cui dedica più attenzioni. “Mio padre era un impiegato delle Poste, mia madre una casalinga. Facevamo fatica ad arrivare a fine mese. La mia generazione, sino all’età di 13 anni, andava in giro con i pantaloni corti anche in inverno e con i calzettoni alti, stretti in cima da un laccio che spesso si rompeva. Si poteva avere accesso ai pantaloni lunghi solo verso i 15 anni. A forza di usarli, si sfilacciavano nel culo. Da uno scampolo di tessuto prendeva quindi una toppa. Il problema era che aveva una luce propria, tipo quei giubbini stradali di oggi. Indossavamo anche le maglie della salute, che erano diverse dalla maglie di lana di oggi, che sembrano di seta. Le nostre sembravano di filo spinato e davano fastidio per una settimana intera”.

“Il primo regalo che ricevetti fu un libro, ‘Senza famiglia’. Non sono passati secoli. Oggi le persone non vivono senza telefonino e navigatore. Una volta le case avevano il cesso, ed era posizionato fuori dalla casa. Il cesso è diverso dal bagno: era un pozzo nero. Pare che durante la guerra alcuni contadini distillarono una grappa, che venne venduta ai soldati americani. Ma non saprei dire il suo bouquet”.

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