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San Marino, il mondo femminile di tre artisti del Novecento

da Redazione

Banca CIS: Modigliani, Campigli e Tozzi nelle parole di Silvia Arfelli. L’aneddoto parigino: quando Luigi Michelacci rifiutò le opere di “Dedo”.

BancaCIS Silvia Arfelli

 

di Alessandro Carli

 

Poetiche espressive diverse, quelle di Amedeo Modigliani, Mario Tozzi e Massimo Campigli, protagonisti del primo appuntamento di “Col-lezioni d’arte con Aperitivo d’Artista”, l’evento ideato da Banca CIS che – attraverso le parole della critica Silvia Arfelli – crea una crasi tra alcuni capolavori della Collezione Scudo Arte Moderna e l’enogastronomia.

Poetiche differenti, come le vite che i tre artisti hanno vissuto, unite però da un fil rouge straordinario: la rappresentazione dell’altra metà del cielo, come chiarisce il sottotitolo della lectio magistralis: passato, presente e futuro. “La rappresentazione dei loro universi femminili – ha esordito Silvia Arfelli – parte dal passato, si sviluppa nel loro presente e si proietta nel futuro”. Nel tempo che la platea che ha affollato la Galleria San Marino di Palazzo Arzilli.

Il viaggio parte da Modigliani e da una sua deliziosa matita, “Nu allongè” del 1917, ma soprattutto dalla sua vita e dal suo tocco. “Il più grande artista europeo del Novecento, se avesse vissuto di più” lo ha definito la critica. “I suoi nudi fecero scalpore perché mettevano in mostra una grande sensualità, quasi sfrontata, riscattata però dalla purezza della sua realizzazione”. Un disegno “fluido, morbido ed elegante”, quasi a voler contrastare la sua vita da maudit, finita nel 1920, a soli 35 anni. La moglie, Jeanne Hébuterne, incinta del secondo figlio, all’indomani della morte di Amedeo si gettò da una finestra al quinto piano. Modigliani venne sepolto nel cimitero del Père-Lachaise, lo stesso in cui, tra gli altri, vennero tumulati anche Oscar Wilde e Jim Morrison.

Sono bellezze senza tempo, quelle fermate da Modi. “Gli occhi delle modelle sono vuoti – ha proseguito Silvia Arfelli -. Nei suoi disegni, linee e superfici entrano in relazione”. Il viaggio nel mondo dell’artista livornese si è concluso con un aneddoto. “Il nipote di Luigi Michelacci, pittore di Meldola, mi raccontò che quando suo nonno si recò a Parigi, incontro Modigliani. Mosso da compassione, lo invitava spesso a pranzo. Amedeo gli fece vedere più volte la soffitta in cui abitava e per sdebitarsi, gli disse: ‘Dai, prendi su qualcosa’. Luigi però, per un codice d’onore non scritto, non accettò mai. Per lui non si poteva portare via un’opera d’arte per un tozzo di pane”.

Massimo Campigli, ovvero “il grande dimenticato del Novecento”. Nella sua pittura si incontrano l’arte egizia, bizantina ed etrusca. Esempio cristallino ne è la “Promenade” del 1954, un’opera di “una semplicità apparente”. Le sue donne, ho spiegato Silvia Arfelli, “hanno occhi grandi e senza sguardo, corpi a forma di clessidra. Sono donne prive di realismo, con sorrisi antichi per sempre”. Un universo femminile quasi maniacale, quello di Campigli, quando il femminismo era invece manierato.

Diversa e vicina, per poetica, la vita di Campigli e quella di Mario Tozzi che, quando espone al “Salon des Artistes Indépendantes”, al “Salon d’Automne” e al “Salon des Tuileries”, viene subito notato dalla critica. Fonda il celebre Groupe des Sept (Gruppo dei Sette conosciuti anche come Les Italiens de Paris) con Campigli, De Chirico, De Pisis, Paresce, Savinio e Severini. Fu un artista poliedrico.

Attraverso le sue opere “Isabelle e Brigitte” (Fanciulle al mare) del 1967 e “Le atlete” sempre del 1967, il pubblico ha potuto dare colore e forma, ma anche corrispondenza, tra le parole di Arfelli e il tratto dell’artista.

“Il suo linguaggio quasi scultoreo – ha concluso la critica – trovava una sua funzione sulle superfici scalfite”.

Tema del secondo incontro, in programma venerdì 12 maggio, sarà il paesaggio. Un paesaggio archetipo, rivoluzionario e retorico al tempo stesso, si riscontra nelle opere della Collezione: “Casa del madonnone” del 1932 di Ottone Rosai, “Luglio” di Arturo Tosi e “Forte dei Marmi” di Carlo Carrà del 1960.

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