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Dorin Mihai, l’Odisseo che con la macchina fotografica racconta la “Matria”

da Redazione

Pinacoteca San Francesco: aperta sino al 1 maggio la mostra sulla Romania. La forza degli occhi, il “punctum” di Barthes, i ricordi del padre.

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di Alessandro Carli

 

Quando Dorin Mihai mi ha donato la brossure della sua mostra fotografica “Luci dell’Est, genuinità della terra romena”, ospitata sino al 1 maggio all’interno del Museo Pinacoteca San Francesco (Via Basilicius – San Marino Città), la mia mente ha lavorato sulla stratificazione dell’immagine, e sul suo significato più profondo. Il primo percorso è stato di natura linguistica e filologica, prima che sociale: fotografare significa “scrivere con la luce”. E Dorin, con la sua macchina (da “fotografia” ma al contempo anche da “scrivere”), ha saputo tracciare un racconto di grande forza, di quella forza che nasce da una ferita profonda, dall’abbandono, dalla separazione di una terra che, immancabilmente, è grembo, “Matria”, “Patria materna”, radice familiare. Troviamo, all’interno di questa personale, il mito di Odisseo, quindi il topos del “viaggio”, tema attualissimo se si legge l’attualità dei flussi migratori, abbinato ad un’altra parola greca, “Nostos”, il ritorno, la “nostalgia”, quindi dolore, mancanza. Un mito che però lascia il passo a una poetica più personale, che si sviluppa attraverso la scelta di “tagli” visivi lontani e vicini: l’utilizzo e l’alternanza del bianco e nero al colore (il mondo è abitualmente a colori, il b/n non è la mancanza di colori ma semplicemente “colori altri”) ma anche le diverse focali messe in campo, dal grandangolo al “50”, con “punti di vista” molto curati.

Il secondo percorso ha toccato il mio personale back-ground, ovvero quel mondo di letture e di mostre che capitano nella vita, quegli incroci, crocevia di verbi e frizioni, che in fondo, alla fine, formano un soggettivo spirito critico: la forza narrativa di queste immagini, in alcuni scatti in bianco e nero soprattutto, portano agli insegnamenti dei Maestri della Magnum, come Henri Cartier Bresson.

“La mia passione per la fotografia – spiega Dorin – nasce dal divieto di usare la macchina fotografica. Avevo 6 anni quando mio padre mi vietò di toccare uno dei pochi oggetti tecnologici che avevamo in casa, una Smena analogica che ancora conservo con amore. Spesso di nascosto, quando rimanevo da solo, aprivo quel cassetto, la prendevo tra le mani e facevo finta di scattare. Quell’oggetto mi ha affascinato per molti anni, lo consideravo fonte d’immagini, testimoni del passare del tempo. Ricordo ancora il suono della mia prima fotografia scattata per errore solo perché nel mio innocente gioco da bambino avevo trovato il rullino tirato. La vita mi ha portato a studiare informatica e da lì a breve ad esercitarla come professione, ma il mio pensiero era rimasto alla vecchia Smena di mio padre. Eravamo già nell’era del digitale quando, nel 2011, dopo un lungo periodo, mi sono riavvicinato alla fotografia. Da allora non ho più smesso di imparare, guardare, sentire, fuori e dentro di me”.

L’Est, da cui sorge il sole (e quindi la luce), è una terra che non ho mai frequentato fisicamente, ma ho “attraversato” nelle parole di altri: Paolo Rumiz, Marco Cortesi e Mara Moschini (straordinario il loro spettacolo teatrale “La scelta”), “Un re allo sbando”, film scritto e realizzato da Brosens e Woodworth che “taglia” i Paesi balcanici, la canzone di Lucio Battisti intitolata (ovviamente) “La luce dell’Est” e “Khorakhané”, capolavoro scritto e cantato da Fabrizio De André. Un “potpourri” di petali, sapori, vegetazione, usanze e mani, lavori e sorrisi, che “abbattono” i muri dell’ignoranza occidentale per far “luce” (ancora una volta questa preziosa parola) sulla società.

Nella street photography cerco sempre un punto di partenza, quel “punctum” su cui Roland Barthes ci ha costruito un grande libro, che mi serve per allargare lo sguardo. Il particolare che apre la mente alla costruzione architettonica dell’immagine. Gli occhi. Nel mare sono le vele delle barche o le onde. Nelle persone, naturalmente, le due fessure che stanno sotto la fronte. Forse perché, sempre in maniera soggettiva, mi ha colpito lo sguardo di Dorin. Uno sguardo azzurro, velato di “Nostos”, ma sempre attento a (rac)cogliere i particolari.

Gli stessi che fanno da fil rouge a questa mostra: uomini, donne e bambini che, come scrive nella presentazione il Direttore degli Istituti Culturali Paolo Rondelli, provengono da “terre bellissime, che caricano i propri abitanti di una luce particolare che traspare da occhi contornati di rughe, o di una calda durezza che si imprime nelle mani”. Persone che sembrano provenire dal passato – i vestiti, i mestieri – e che hanno gli “occhi limpidi come un addio”.

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