Home FixingFixing Quand’è che finisce il gergo e inizia un nuovo dialetto?

Quand’è che finisce il gergo e inizia un nuovo dialetto?

da Redazione

Trascurare la propria lingua sembra oggi abituale. Eppure poesia e umanità ne sono ricolmi. Ci si finge cittadini del mondo davanti alle chat. In realtà si fa “solo” fatica a parlare.

 

di Simona Bisacchi Pironi

 

Il patrimonio di un popolo risiede nelle sue capacità di esprimersi e raccontarsi.

Quando manca questa capacità, l’uomo è destinato al silenzio.

Conoscere una lingua straniera sembra, oggi, fondamentale.

Trascurare la propria lingua sembra, oggi, abituale.

Mentre i dialetti sono diventati, oggi, appannaggio di autori e registi che colgono la loro forza espressiva, ma rimangono sconosciuti – o addirittura bistrattati – da molti. Abbiamo abbandonato il dialetto perché non è abbastanza raffinato, è brusco, grossolano.

Lo abbiamo messo da parte e chiuso in soffitta, come i ricordi dei nonni, la loro storia. Lo abbiamo accantonato perché è fuori moda. E lo abbiamo rimpiazzato con uno slang contemporaneo fatto di termini anglofoni di cui – quasi – nessuno conosce il significato autentico. Ci si riempie la bocca di “brunch”, si mettono insieme le idee in un “brain storming”, si immortalano momenti in un “selfie”, e si pretende un’esistenza “all inclusive”.

Fino a perdersi in un fatuo linguaggio da villaggio globale, dove tutti usano gli stessi termini e non dicono niente.

“Quand’è che finisce il gergo e comincia un nuovo dialetto? – si chiede la giornalista statunitense Constance Hale – Dov’è la linea tra neologismo e iperbole? Come possiamo tenere il passo con la tecnologia senza impiantarci nei tecnicismi? È possibile scrivere di macchine senza perdere il senso dell’umanità e della poesia?”.

Umanità e poesia di cui i dialetti sono ricolmi. La lingua italiana ha unito un popolo, diviso da troppi dialetti che ostruivano il dialogo.

Ma ora che il dialogo è possibile, e il dialetto non è più divisione ma cultura – cultura di una regione, cultura di radici e generazioni – appare tutto troppo provinciale.

Ci si finge cittadini del mondo rimanendo fermi davanti alle nostre “chat”, ai nostri “sms”, che danno la sensazione di essere dappertutto, mentre si è solo – e soli – davanti a uno schermo.

Non si fa fatica a parlare il dialetto, si fa semplicemente fatica a parlare, perdendo concretezza sia nel linguaggio che nel pensiero.

“La parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare”, questa definizione dello scrittore Luigi Meneghello spiega con immensa semplicità perché ci sono termini dialettali che sono intraducibili in italiano.

Sono parole nate dalla quotidianità, dal lavoro, non filtrate da libri o professori, solo vissute.

Le parole dialettali non definiscono concetti ma dipingono la realtà.

Perché “Tutti i dialetti sono metafore e tutte le metafore sono poesia” (Gilbert Keith Chesterton).

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