In una piccola storia di quotidianità televisiva, la cantautrice “critica” con profondità il “carosello” della facile commozione.
di Alessandro Carli
All’orecchiabilità gradevole delle sonorità di Max Gazzè, rievocate ma senza imitazione nella canzone “Lacrimometro”, Chiara Raggi aggiunge una maturità testuale che, non dimenticando il gioco delle rime, affonda la penna nei contrasti. In una piccola storia di quotidianità televisiva, la cantautrice “critica” con profondità il “carosello” della facile commozione: non è dato di sapere a chi indirizza questa “acerrima” missiva (giusto per utilizzare un termine presente dell’incipit), ma poco importa. Chiara preferisce il contenuto, forse la medicina. Ed è qui che nasce, forse, l’idea di uno strumento neologistico, quel “lacrimometro da regolare ad arte”, così lontano ed artificioso rispetto al vero significato delle lacrime, raccontate come “rituali come una preghiera / in piena sincronia col battito del cuore / sempre in contrappunto con la ragione”.
La forza di questo brano risiede nel continuo battere e levare. Chiara, sempre in misurato equilibrio, oscilla tra il serio (“Piangi la vita che dona l’amore / piangi la vita perché si muore”) e il sorriso, l’attacco delicato a una società modaiola che oggi si batte per una novità e domani, forse, l’ha già sostituita (“c’è una versione tascabile / è ecosostenibile”).
Da ascoltatrice e autrice, Chiara – pirandellianamente – si sa anche “veder vivere”. Il passaggio “C’è la lacrima da prima fila / che chiama l’applauso / a scena aperta”, analizza e ghettizza un gesto “teatrale”. Anche lui, che fa impazzire i fan, viene generato da questo “lacrimometro”.
Il fil rouge fiabesco che attraversa parte della sua produzione riemerge splendidamente nel finale quando etichetta come “magico” questo strumento in quanto, ma non vi è certezza, “può consolare lo spirito”. Come deve fare la musica. Quando ci riesce.