Molti maestri si sono “scontrati” con il tema. Uno su tutti, Paulo Coelho. Oggi sono sempre di più i “diplomati” del “risolvere la vita degli altri”.
di Simona Bisacchi Pironi
Tutti vogliamo salire in cattedra e dare lezioni importanti su come comportarsi, come pensare e cosa scegliere. Ci eleggiamo professori della materia che ci aggrada, per insegnare agli altri “come si fa”, o addirittura come “è giusto” fare.
Non ci preoccupiamo affatto di non avere alcun titolo, e ancor meno ci accorgiamo che il più delle volte non abbiamo nemmeno alcun ruolo nell’esistenza delle persone a cui vogliamo insegnare a vivere. Eppure pretendiamo che ci stiano ad ascoltare perché “noi sappiamo”, “noi abbiamo compreso”.
Diplomati alla scuola del “risolvere la vita degli altri è meglio che impazzire a sistemare la nostra”, abbiamo talmente tanti consigli da promulgare, verità da proclamare, che non rimane tempo per accorgersi che siamo tutti professori e nessuno più è allievo, perché imparare costa molta più fatica che insegnare a vanvera. Se il “sapere per sentito dire” fosse una facoltà, sarebbe difficile trovare un non-laureato sulla terra.
Come scrive Paulo Coelho: “Conosco una moltitudine di individui che, a parole, sono degli autentici maestri ma che sono incapaci di vivere quello che predicano”.
E tra tanti professori pronti a svelarti la complessità dell’esistenza e le strategie di sopravvivenza, non si trova più un maestro che ti insegni il mestiere di stare al mondo semplicemente ispirandoti, mostrandoti come si fa.
“L’insegnante mediocre racconta. Il bravo insegnante spiega. L’insegnante eccellente dimostra. Il maestro ispira” (Socrate).
È difficile incontrare qualcuno così, perché dare l’esempio ha un prezzo alto. Costa impegno, coerenza e, solitamente, ottiene in cambio antipatia.
Il maestro è un bersaglio facile, puoi prenderlo in giro perché sa poco di filosofia e ancora meno di ingegneria, però conosce l’alfabeto – le basi fondamentali della comunicazione e del dialogo – e te lo insegna con tutta la pazienza che un bambino si merita.
Ma, invece di ringraziarlo, gli urliamo contro che noi non siamo dei bambini ed elenchiamo soddisfatti una lista di parole grosse come “offeso”, “incompreso” e “trascurato” mentre sbattiamo la porta, finalmente liberi di fare ciò per cui siamo nati: insegnare agli altri.
Corriamo via e raccontiamo a tutti quanto abbiamo capito della vita, e abbiamo capito così tanto che vorremmo che tutti facessero esattamente come noi.
Crediamo di sapere come si fa, dove è giusto andare, e dimentichiamo le regole d’oro della scuola materna: “buongiorno”, “buonasera”, “posso?”, “grazie”.
Dimentichiamo le tabelline, la differenza tra apostrofo e accento, i fiumi che percorrono la nostra città.
Dimentichiamo che le persone hanno bisogno di ascolto, non di prediche.
Dimentichiamo che “siamo tutti apprendisti in un mestiere dove non si diventa mai maestri” (Ernest Hemingway).
Dimentichiamo che vivere è l’unica materia fatta non di regole ma di eccezioni, perché il destino di ognuno è solenne e come affrontarlo è un’arte in cui si può venire accompagnati, ma non sostituiti. E questo il buon maestro lo sa.
“A mio padre devo la vita, al mio maestro una vita che vale la pena essere vissuta” (Alessandro Magno).
Il maestro ascolta. Ride. E ogni tanto allunga il bastone, solo per spostarti dall’orlo del precipizio.
Ma soprattutto ti fa credere che è possibile, che anche tu puoi riuscirci. Non esiste problema o tema che tu non sia in grado di affrontare, l’importante è che tu non abbia la presunzione di risolverlo.
Il buon maestro vive, in modo leggero e discreto. Ai piedi di quella cattedra su cui tutti vogliono salire.
Lui sta lì, in basso, pronto a raccoglierti quando cadrai da così in alto.