Home FixingFixing Paolo Rumiz, Appia: “Chi cammina ha i piedi per terra e la testa tra le nuvole”

Paolo Rumiz, Appia: “Chi cammina ha i piedi per terra e la testa tra le nuvole”

da Alessandro Carli

Nel 2016 Paolo Rumiz ha pubblicato per Feltrinelli un libro, “Appia”, che in realtà è un viaggio a piedi che il giornalista di “Repubblica” e “Il piccolo di Trieste” ha compiuto a piedi da Roma a Brindisi.

A novembre l’autore de “La leggenda dei monti naviganti”(e di altri libri) ha partecipato a “Ciò che ci rende umani”, la rassegna firmata dal Teatro Valdoca che indaga (anche) il rapporto tra lo spostamento e le sonorità.

“Chi cammina è costretto ad arrendersi al verso” ha esordito lo scrittore triestino, aggiungendo che “i versi si dividono in piedi (nella metrica classica il ritmo si batteva con il piede ed era formato da un gruppo di due o più sillabe brevi e lunghe che costituivano la misura del verso, ndr)”. Rumiz poi si è soffermato sugli oltre 600 km che separano l’Urbe da Brindisi. “Durante il viaggio il camminatore diventa sempre più poeta e sempre meno raccontatore in prosa – ha spiegato -. Chi cammina ha i piedi per terra e la testa tra le nuvole”.

Già, i piedi. “Non sono arti ma organi di senso”, utili per captare “i segnali che la terra ci lancia”. Rumiz, dopo aver svelato un piccolo aneddoto (“Io venero i piedi sin da bambino. Ricordo che la mia maestra un giorno mi disse che ‘scrivevo con i piedi’. Mi offesi: per me sono una parte nobile del corpo”), ha spiegato che “tra viaggio e narrazione c’è un’identità che si può sovrapporre”.

In versi – giusto per tornare al tema dell’incontro – l’autore ha scritto “La cotogna di Istanbul”. “E’ una storia complessa che alterna scene di grande amore e di morte. Avevo bisogno di raccontarla per diluire una perdita. Scriverla mi ha dato molto sollievo. Mi misi al tavolo ma non trovavo la forma giusta. Camminando, mi chiesi: ‘Perché non farlo in versi?’ Ma non avevo dimestichezza con questo genere. Ci ho impiegato un anno per capire come funzionava”.

I versi di Paolo Rumiz, in passato, hanno incontrato – felice sinapsi – anche il mondo della musica.

“Un giorno mi cercò Paolo Fresu. Io non avevo dimestichezza con la sua musica. Lui però sapeva la mia passione per i luoghi. Mi chiese l’introduzione a un suo libro, un’opera sui suoi 50 anni e suoi 50 concerti che tenne all’aperto in Sardegna”.

Posti non proprio istituzionali, come ad esempio sotto i nuraghi. “Gli dissi che sapevo poco di lui. Ci vedemmo, ci chiudemmo in casa mezza giornata. Alla fine mi trovai con una risma di fogli A4 tutti scritti”.

“Un giorno arriva Alessandro Scillitani (il regista che ha firmato il lungometraggio del viaggio lungo la via Appia, ndr) e mi porta al Sud per una serie di incontri. Tornando verso Nord, alle porte dell’Abruzzo, ci sorprende una copiosa nevicata. Ci fermiamo in una casa senza luce e senza riscaldamento”.

Per sconfiggere il freddo, viene acceso il caminetto. “Torno a casa e non trovo più gli appunti presi assieme a Paolo Fresu. Che siano stati bruciati? Naturalmente non trovo il coraggio di telefonargli”.

Camminando su e giù per la stanza, Paolo Rumiz immagina un’altra Sardegna: la propria. “Paolo Fresu suona rannicchiato su se stesso – ha proseguito parlando del grande musicista di Berchidda – e soffia il fiato all’ingiù. La sua tromba non è fatta per suonare ma per ascoltare quello che sale dalla terra. Guardai su Google i luoghi in cui aveva suonato e gli mandai un testo in endecasillabi. Gli piacque”. Poi, ha concluso, “gli appunti li ho ritrovati”.

La musica per Paolo Rumiz e stato anche altro: Mario Brunello, grande violoncellista. “Sette o otto anni fa, in montagna – zona Cimon della Pala e davanti a un buon vino – lo incontrai. La sera si portava dietro il suo strumento e raccontava che quel violoncello veniva da un bosco di abeti di risonanza. Un legno molto amato anche dai liutai di Cremona. ‘Perché abbattere gli alberi per sapere se suonano bene?’ disse. ‘Esiste un sistema per farli suonare da vivi’. E così fece”.

Rumiz difatti ha scritto questo aneddoto su “Repubblica”: “I liutai scelgono i legni giusti già affettati sulle mensole della stagionatura. Li battono, li soppesano, ne misurano la risonanza con strumenti speciali. Nessuno aveva mai provato a far suonare alberi vivi. Ora è questo che accade. Il violoncellista arranca nella neve alta al ginocchio, con lo strumento affardellato in una custodia color argento. Si sposta di tronco in tronco, ausculta gli alberi, usa lo strumento come uno stetoscopio. Non si dà pace, cerca l’esemplare perfetto”.

Non ha suonato il violoncello, Rumiz, durante il viaggio tra Roma e Brindisi.

Il docufilm firmato da Alessandro Scillitani – proiettato subito dopo l’incontro – rivela la sua passione per l’armonica a bocca.

Che suona, camminando, assieme al grande Vinicio Capossela.

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