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Pensioni, la riforma parte dal lavoro: ne serve di più

da Redazione

Primo obiettivo: aumentare i livelli occupazionali. Per raggiungerlo occorre favorire lo sviluppo di nuove imprese, che necessitano di un mercato del lavoro più efficace.

 

di Daniele Bartolucci

 

Le pensioni sammarinesi, così come tutto il welfare state costruito con fatica nel corso degli ultimi decenni, rischiano nel breve periodo di non essere più sostenibili. Da una parte la mancanza di riforme strutturali e scelte lungimiranti ma impopolari, dall’altra una spending review ancora zoppa, hanno portato in pochi anni ad un problema serissimo di bilancio.

 

LAVORO E PENSIONI IN UN’UNICA RIFORMA

L’imputare alla crisi economica tale repentino deterioramento è però un esercizio più politico che tecnico. Tecnicamente, infatti, al di là dei posti di lavoro persi (circa 1.760 tra il 2008 e il 2015, di cui ben il 75,4% erano frontalieri), la stessa normativa ha prodotto gli effetti che si vedono oggi nei numeri. Effetti sicuramente accelerati dalla riduzione dei livelli occupazionali, ma appunto, non causati da questa. Il primo dato che emerge, infatti, è il disequilibrio tra numero di pensionati e numero di lavoratori, oggi sempre più vicino alla soglia di 1 pensionato ogni 2 lavoratori. Se è vero che ci sono meno lavoratori (che contribuiscono al sistema), è anche vero che ci sono sempre più pensionati, e anche per più tempo grazie all’innalzamento dell’aspettativa di vita. Un’operazione di sistema, quindi, non può evitare di intervenire su questi due fattori: migliorare i livelli occupazionali e riformare il sistema previdenziale. Non due riforme, ma un’unica riforma complessiva, in pratica, che comprenda anche il variegato sistema degli ammortizzatori sociali, perché la ricerca di un’occupazione non diventi un limbo infinito (magari “dorato”).

 

Un peso per lo Stato e riserva tecnica in bilico

Come noto, è stata istituita una Commissione di Studio per la riforma del sistema previdenziale e se non fosse caduto il Governo, come previsto dalla Legge di Bilancio 2015, oggi avremmo una bozza di legge da discutere. Invece sarà compito del prossimo Esecutivo. Un ritardo che si somma a quelli già evidenziati dalla stessa Commissione, che non fa altro che aggravare la situazione. E infatti, se lo Stato aveva previsto a inizio anno di dover contribuire ai Fondi Pensione con 17 milioni di euro, a settembre nell’assestamento ne ha dovuti trasferire 2 in più, quindi 19 milioni di euro. In futuro la cifra è destinata a lievitare, quindi a pesare sempre più sul Bilancio dello Stato. Ma non basterà a evitare che nel volgere di pochi anni venga intaccato e poi azzerato l’ingente patrimonio accumulato negli anni passati. Un patrimonio di quasi 400 milioni.

 

LA NUOVA PREVIDENZA: LE IPOTESI IN CAMPO

Nell’immediato, quindi, occorre intervenire per evitare l’erosione del patrimonio: ridurre le pensioni attuali e aumentare le aliquote contributive sembrerebbero le soluzioni più semplici e rapide, ma sono chiari a tutti gli effetti di tali interventi, per cui anche la Commissione di Studio ha sempre ammonito il legislatore che agire su queste leve avrebbe una conseguenza sia sul versante economico (sui consumi e indirettamente anche sulle imprese che si troverebbero un costo del lavoro più alto), sia su quello sociale, intaccando i cosiddetti “diritti acquisiti”. Sulle pensioni attuali, stante la loro poca oggettiva equità nel rapporto padre-figlio e ancora di più in quello nonno-nipote, una valutazione si rende comunque necessaria, basandosi però sul criterio dei contributi, evitando di penalizzare chi effettivamente ha versato di più durante la vita lavorativa, e concentrandosi su chi invece ha versato meno. Ma anche qui l’intervento risolutore e immediato sarebbe ingestibile. Una revisione graduale delle norme, invece, potrebbe ottenere una maggiore condivisione, per è necessario stabilire una tempistica certa e chiara. Anzi, la proposta sul tavolo, emersa anche nell’incontro di fine febbraio con tutte le parti sociali, pare sia quella di prevedere delle clausole di salvaguardia, per cui a determinate situazioni negative corrisponda in automatico un intervento mirato. Ed è in questo caso che un lieve aumento delle aliquote (quelle dei lavoratori e non dei datori), potrebbe rendersi necessario ma allo stesso tempo sostenibile. Nel lungo periodo invece, intervenendo sulla Legge del 2011, le proposte sono diverse. La prima è la modifica dei coefficienti per il calcolo delle pensioni, riducendo l’attuale differenza tra redditi sotto e sopra i 20.000 euro: questo dovrebbe aumentare i contributi sopra l’attuale soglia con un possibile incentivo a dichiararlo, visto che oggi chi dichiara un reddito maggiore è disincentivato a farlo. Poi si potrebbe modificare il requisito per la pensione di anzianità aumentando fino a 102 la quota minima data dalla somma dell’età e degli anni di contributi versati. Infine, una piccola rivoluzione necessaria a San Marino, ovvero la possibilità di svolgere l’attività lavorativa anche dopo la pensione, già possibile, per esempio, nella vicina Italia. Infine, un incentivo agli imprenditori e soprattutto ai dirigenti, potrebbe essere quello di cancellare il tetto pensionistico, mantenendo comunque il principio solidaristico, che si avrebbe rimodulando la pensione magari a scaglioni. Attualmente infatti, tale “tetto” risulta essere un limite per i lavoratori e quindi, di riflesso, per le imprese.

 

FONDI PIÙ REDDITIZI O CONTRIBUTIVO

Tutto questo dovrebbe rendere sostenibile l’intero sistema, è vero, ma in prospettiva resterebbe tale solo aumentando anche i rendimenti dei fondi e del Fondiss. Purtroppo la sostenibilità del sistema non cambierà la formula innescata anni fa: si andrà in pensione più tardi e con un assegno inferiore rispetto ai padri e ai nonni. Anche per questo, con sempre più forza, si sta facendo strada un cambiamento di sistema che tanti altri Paesi, come l’Italia, hanno già scelto da anni, ovvero il passaggio da un sistema retributivo ad uno basato sul contributivo. L’unico modo, secondo molti esperti del settore, per ricostruire quel patto generazionale che anche a San Marino si è sgretolato negli ultimi anni.

 

COLLOCAMENTO VELOCE E PIÙ COMPETENZE

Partiamo dall’occupazione, che è la conseguenza diretta di maggiori investimenti privati e, quindi, dello sviluppo imprenditoriale. Senza imprese non si creano posti di lavoro, a meno che non si voglia trasformare lo Stato nell’unica “impresa” di San Marino. Quindi occorre puntare sulle imprese, che oggi ricercano competenze sempre più specifiche per poter competere sui mercati internazionali. Il primo intervento in tal senso riguarda il collocamento, che deve diventare più veloce e, una volta verificati i requisiti, prevedere procedure standard e quasi automatiche di incontro tra offerta e domanda di lavoro. Poi però ci devono essere le competenze, vero tasto dolente del sistema sammarinese: un investimento nella formazione è non solo necessario, ma urgente. Questo per collocare al meglio i lavoratori disoccupati o inoccupati, ma anche per evitare che si debba sempre dipendere dal mercato fuori confine (frontalieri). A tal proposito, nella complessiva riforma, anche secondo le indicazioni del Gruppo tecnico che ci ha lavorato nei mesi scorsi, occorre vincolare la permanenza nelle liste alla formazione continua, renderla in pratica obbligatoria, riducendo, al contempo, le tutele (soprattutto economiche) perché non sia più conveniente restare disoccupato piuttosto che andare a lavorare. Dall’indagine eseguita dal Gruppo tecnico, infatti, si scopre che pur essendo migliorato il rapporto tra iscritti e assunti entro i 50 giorni dalla fine della mobilità, “un numero non trascurabile di lavoratori risulta ivi iscritto da lungo tempo”, si legge nella relazione: 681 su 1.319 nel 2014, 299 su 1.336 nel 2015. E di questi “una quota non trascurabile, pur se iscritta da lungo tempo, non ha mai ricevuto un avvio al lavoro o gli avvii al lavoro risultano in numero non superiore a 1 o 2 occasioni”.

 

WELFARE PIÙ EQUO: È ORA DELL’ISE

Il welfare della Repubblica di San Marino si conferma tra i più evoluti al mondo, capace di compensare se non mantenere costante, il livello di benessere dei sammarinesi. Questo non significa, però, che l’insieme degli strumenti messi in campo negli anni sia immodificabile e migliorabile. Anzi, la sfida a cui l’antica Repubblica si sta approcciando, fatta di riforme con evidente rilevanza sociale ed economica, parte da questo presupposto: l’attuale livello di welfare, invidiato da buona parte degli altri Paesi, anche di quelli più grandi e industrializzati, è una conquista e per tale motivo va difesa e resa sostenibile. Ma in maniera più equa. Per questo ogni ragionamento in tema di welfare, previdenza, assistenza o ammortizzatori sociali, ha come obiettivo strumentale l’introduzione dell’ISE. L’Indicatore dello Stato Economico, ipotizzato fin dal 2009 e riproposto ogni anno in finanziaria, oggi oggetto di lavoro di un Gruppo Tecnico incaricato ad hoc, emerge infatti tra gli step fondamentali di tutte le riforme annunciate o già in corso d’opera in questi mesi. Il concetto di equità, infatti, non può svilupparsi a San Marino senza una chiara e trasparente distinzione tra chi ha effettivamente necessità di un aiuto (economico e non solo) e chi invece non ne ha. La discriminante, ovviamente, non può essere solo il reddito familiare (si pensi ad altri fattori, come l’anzianità o la disabilità), ma l’utilizzo delle risorse senza questa distinzione basilare rischia di darne anche a chi, oggettivamente, non ne avrebbe bisogno, con la conseguenza di darne sempre meno a chi invece non può farne a meno. Proprio per questo il Governo ha deliberato a fine febbraio che i due Gruppi Tecnici, quello per la riforma degli ammortizzatori sociali e quello per l’istituzione dell’ISE, lavorino ora assieme, per arrivare ad un progetto organico e condiviso. E lo stesso dicasi per l’annunciata riforma delle pensioni, dove l’ISE potrebbe rivelarsi altrettanto utile per rimodulare (come vorrebbe fare l’Italia per le pensioni di reversibilità) le prestazioni previdenziali.

 

PIÙ SPINTA ALLA RICERCA DELL’OCCUPAZIONE

I dati sulla disoccupazione e, in particolare, sulla inoccupazione, rilevano diverse dinamiche, alcune positive, altre negative. Mentre è evidente che negli ultimi anni sia aumentata la percentuale di lavoratori over 50 e di donne, questo grazie anche alle politiche attive introdotte per tempo, più difficoltoso è l’inserimento nel mondo del lavoro dei giovani. E’ vero che San Marino sta investendo finalmente nella formazione professionale e nell’aggiornamento continuo delle competenze, ma i numeri raccolti dal Gruppo Tecnico che si occupa della riforma degli ammortizzatori sociali palesano un fenomeno che, forse, pur essendo presente già da anni, diventa oggi un problema vero e proprio per via dei numeri, non più trascurabili. Stiamo parlando dei disoccupati, ma anche degli inoccupati. La distinzione tra disoccupati in senso stretto e “altri”, che ha generato più volte un misunderstanding dei dati forniti dall’UPECEDS, è solo una parte del problema. L’altra, più interessante ai fini di una più corretta gestione delle risorse disponibili, è quella data dalle liste disoccupati: pur essendo migliorato il rapporto tra iscritti e assunti entro i 50 giorni dalla fine della mobilità, “si scopre che un numero non trascurabile di lavoratori risulta ivi iscritto da lungo tempo”, si legge nella relazione: 681 su 1.319 nel 2014, 299 su 1.336 nel 2015. E di questi “una quota non trascurabile, pur se iscritta da lungo tempo, non ha mai ricevuto un avvio al lavoro o gli avvii al lavoro risultano in numero non superiore a 1 o 2 occasioni”. Il problema è dato dal contributo che comunque queste persone possono percepire e “dobbiamo quindi evitare che la permanenza in queste liste diventi un reddito vero e proprio”, anticipa il Segretario Iro Belluzzi. Per il Gruppo Tecnico, infatti, “devono essere ragionevolmente rivedute le regole di amministrazione, iscrizione e tenuta del registro stesso”, ricordando che attualmente sono iscritti anche coloro che non stanno cercando un lavoro. Come intervenire? Le ipotesi sono diverse, ma non possono prescindere dall’evitare “fenomeni antibeveridgiani di arrendevolezza (consapevole o meno) nella ricerca di una nuova occupazione”. Tradotto: riduzione progressiva dei benefici al decorrere del tempo, vincoli più stringenti alla formazione e sanzioni a chi rifiuta l’occasione di lavoro che si presenta.

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