La proposta di Scialoja fu bocciata: avrebbe cambiato il fisco italiano. Era il 1866, ma già allora vinse “il fronte del rifiuto al cambiamento”.
di Daniele Bartolucci
La storia della “tassa sul macinato” è un caso scolastico di politica economica, a distanza di quasi un secolo e mezzo dalla sua promulgazione, datata 1868. Studiosi, politici ed economisti italiani e di tutta Europa ne hanno raccontato, nel bene e nel male, tutti gli effetti e concause, riconoscendole per certi versi le fondamenta del sistema tributario italiano e, purtroppo, la sua incapacità a rinnovarsi e trasformarsi. Un muro con cui si dovette scontrare anche Antonio Scialoja, Ministro delle Finanze, che aveva proposto una valida alternativa alla tassa sul macinato: quell’imposta generale sul reddito, sul modello della income tax inglese, che oggi San Marino ha sposato appieno. Che quella bocciatura abbia lasciato, negli anni di lavoro sul Titano, qualche traccia? Non si sa. Quel che è certo, invece, è che quella proposta, se avesse avuto la forza di venire approvata e tradotta in legge, molto probabilmente avrebbe cambiato le sorti del fisco italiano, per come si è evoluto nel secolo successivo soprattutto.
Ma cos’era questa tassa sul macinato e perché, oggi, viene considerata una scelta sbagliata sotto moltissimi aspetti? In un’economia rurale come quella dell’Italia del tempo, il prezzo della farina aveva un valore economico e sociale enorme, paragonabile forse a quello della benzina e dell’energia oggi (dove infatti il popolo subisce e lamenta ancora il peso “statale” delle accise applicate). E in quel contesto, lo Stato obbligò a installare all’interno di ogni mulino un contatore meccanico che conteggiava i giri effettuati dalla ruota macinatrice. La tassa era caclolata in proporzione al numero di questi giri, che, secondo i legislatori, dovevano corrispondere alla quantità di cereale macinata. Ogni mugnaio doveva versare la tassa all’erario, sia con riferimento alla lettura del contatore, che, in mancanza di questo, sulla base della macinazione presunta. La conseguenza diretta fu un forte incremento del prezzo del pane e, in generale, dei derivati del grano e degli altri cereali, prezzo che non scese dopo l’abrogazione della tassa. Se da un lato la nuova tassa contribuì, insieme all’Imposta di ricchezza mobile, al raggiungimento del pareggio di bilancio nel 1876, dall’altro diffuse il malcontento nelle classi sociali più povere, per le quali i derivati del grano rappresentavano il principale, se non unico, alimento e andava contro la tradizionale politica annonaria di favorire prezzi contenuti per i cereali. Fu uno dei pochi casi, in Italia, in cui si scatenò la protesta popolare, con rivolte violentissime. A quella che divenne l’archetipo della tassazione italica, si contrappose però la proposta innovativa di Scialoja, che prevedeva anche la separazione tra finanza centrale e finanza locale (un antesignano del federalismo?), che avrebbe risolto uno dei nodi centrali del sistema italiano. Il muro su cui si infranse il sogno di Scialoja è lo stesso su cui sono andati a sbattere tutti i suoi successori, come ebbe a scrivere Paolo Favilli nel suo libro “Riformismo alla prova. Ieri e oggi”. “… respingeva il piano finanziario Scialoja perché avrebbe avuto il ‘difetto di non essere immediatamente applicabile […] e di suscitare discussioni passionate ed astruse’. Si tratta sostanzialmente”, scrive Favilli, “delle motivazioni che saranno alla base del rigetto di qualsiasi piano finanziario si fosse proposto l’obiettivo di modificare in profondità il sistema fiscale italiano. Motivazioni-collante di quel vero e proprio fronte del rifiuto che risulterà, sempre vincente”. Grazie anche a “esigenze di bilancio” e “gestione dominata da una emergenza continua”. Era il 1866, nel 2016 quanta di questa definizione è ancora attuale?