Quando si parla di dipendenti pubblici, a San Marino come nella vicina Italia, si rischia sempre di lasciare spazio – volutamente o meno – alla speculazione politica volta a ritagliarsi un facile consenso da una parte o dall’altra della barricata.
di Daniele Bartolucci
Quando si parla di dipendenti pubblici, a San Marino come nella vicina Italia, si rischia sempre di lasciare spazio – volutamente o meno – alla speculazione politica volta a ritagliarsi un facile consenso da una parte o dall’altra della barricata. Per ridurre questo spazio, occorre affrontare la questione in maniera trasversale, guardando a questo settore come parte di un sistema e non come una cosa a se state. Un sistema in cui il privato, cittadino o impresa che sia, si aspetta dal pubblico una serie di servizi, tutele e strumenti che solo il pubblico può garantire (si pensi alla sicurezza, o alla sanità, ma anche all’amministrazione della giustizia e altre funzioni che, se messe in mano totalmente al privato potrebbero generare parecchie storture). Dall’altra parte, è ovvio tener conto anche della conseguenza economica – sul Bilancio dello Stato – di un “pachiderma” di quasi 4.000 dipendenti su 33mila abitanti: se si considera infatti la forza lavoro totale (21.715 unità) e si lasciano a parte disoccupati (1.468) e frontalieri (5.195), si può dire che quasi un lavoratore sammarinese su tre è occupato nel settore pubblico. Ed è totalmente a carico dello Stato, quindi della collettività. Questo significa che – a meno che non si voglia considerare tutto il settore pubblico come un ammortizzatore sociale – questi dipendenti devono produrre per quanto “costano”. Questa la sfida di ogni Governo, compre quello di San Marino. La strada è quindi quella dell’efficienza, della riorganizzazione e della riduzione della spesa corrente, anche se finora i risultati sembrerebbero andare nella direzione opposta: l’efficienza – i dati del “Doing Business” sono incontrovertibili – non è ancora ai livelli dei Paesi migliori, le riorganizzazioni (accorpamenti soprattutto) stentano a compiersi secondo i canoni della spending review e la spesa corrente continua ad aumentare. E’ anche vero che il numero dei dipendenti pubblici è costantemente calato negli ultimi anni (bisognerà vedere quanto incideranno ora le stabilizzazioni, però), ma il dato è un po’ sporcato dai prepensionamenti. Uno strumento utile al ricambio generazionale, forse abusato in questa fase (come contestato dalla relazione dei tecnici propedeutica alla riforma delle pensioni) portando al risultato che si è cancellato un costo a carico dello Stato, ma se ne è aggiungo uno ai fondi pensione. A detta del Segretario alle Finanze, però, per il 2016 non sono previsti né pensionamenti obbligatori né norme per quelli volontari, per cui almeno questo trend dovrebbe interrompersi, ma anche se dovesse confermarsi, è chiaro che tali oneri dovrebbero ricadere a carico della finanza pubblica e non dei fondi pensione che sono dei lavoratori di tutti i settori. Altro aspetto estremamente positivo è quello che riguarda le capacità professionali degli stessi dipendenti pubblici: l’avvio di una nuova stagione per quanto riguarda la formazione continua, stabilita a inizio anno e già partita, è un’ottima notizia soprattutto in prospettiva. Di contro, però, con il recente referendum si deve registrare un nuovo, piccolo o grande a seconda dei punti di vista, intoppo: il tetto stipendi abbassato a 100mila euro. E’ indubbio che una rimodulazione degli stipendi pubblici sia più che opportuna (è l’unico settore non toccato dalla crisi), così come i carichi di lavoro (le ore settimanali non coincidono con quelle del settore privato, ad esempio), ma questo nuovo limite, considerato che si tratta di stipendio lordo, porta con sè un rischio: rinunciare a professionalità super qualificate, manager provenienti anche da altri Paesi, luminari della scienza e della medicina e altre figure. A meno che, e questo potrebbe essere un tema di discussione per la politica, non si innesti una revisione dell’ordinamento generale, per cui tutti i dirigenti e le figure apicali siano incaricati a contratto e pagati in base ai risultati.