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San Marino, viaggio tra i “Profughi” raccolti e raccontati da Giuseppe Giannini

da Redazione

Palazzo Graziani sino al 5 giugno: dall’inferno di Dante alla stretta attualità, passando per l’ex Jugoslavia.

Giannini Giuseppe 

 

di Alessandro Carli

 

Mentre un pittore dipinge l’istante, l’artista lo sa anticipare: riesce cioè, attraverso la sua sensibilità, decodificare il presente con largo anticipo rispetto all’accadimento. Giuseppe Giannini, in mostra sino al 5 giugno alla galleria Graziani con circa 40 tele racchiuse sotto un titolo importante – “Profughi” – appartiene a questa seconda categoria: la stretta cronaca, ovvero quella degli sbarchi, l’ha lavorata (e realizzata con olio su tela) oltre 15 anni fa: visi, tratti, posture mai cristallizzate ma sempre – davvero sempre – in movimento.

Lo sforzo e il moto che si “leggono” nelle sue tele deflagrano in tutta la loro potenza soprattutto nelle “pose”: occhi segnati, sguardi che sfuggono per ricercare, se esiste, una terra di quiete. Il fil rouge che attraversa la sua ricerca va individuato (anche) nella scelta cromatica, molto vivace, quasi a voler far da contraltare alla cupezza del dolore: fondali densi di energia, con richiami alle volte psichedelici, alle volte molto terrigni.

“Il mio ‘primo periodo’ – racconta l’artista italiano nato in Belgio – è stato caratterizzato una matrice più paesaggistica: fermato i pescherecci e gli squarci della Riviera. Successivamente mi sono avvicinato alla figurazione umana, al tema dell’emigrazione, un tema che ho vissuto di persona in quanto mio padre lavorava in una miniera a Liegi”.

Come non pensare alle celebri fotografie scattate da Sebastiao Salgado, quella della miniera della Serra Pelada, in Brasile? “Gli scatti in bianco e nero di Salgado mi hanno colpito molto – racconta Giannini -. Tempo fa ho creato tre quadri – che non sono in esposizione qui a San Marino – su quella miniera in Brasile. Ho preso alcune sue fotografie e le portate su tela”.

L’attualità però è il tema della migrazione, della condizione dei profughi (tra l’altro, raccontati anche da Salgado in quel dramma che il Ruanda ha vissuto negli anni Novanta) che in questa bella mostra, senza l’utilizzo della parola, raccontano la propria, personale letteratura umana. Colpiscono le espressioni dei visi di donne, uomini e bambini. Dolori ma senza ombre di pietismo: nei loro gesti c’è la forza della speranza. Assieme all’artista “entriamo” nei dettagli. Da uno, in particolare: l’inizio. “Sono un autodidatta, però amo leggere, studiare, informarmi. Cerco di seguire alcuni canoni, le distanze e l’armonia. Un volto parte dagli occhi”.

E sono proprio gli sguardi dei soggetti delle sue opere che ti squassano dentro: uomini e donne di colore (“In Africa i cattolici sono scappati dagli islamici” spiega), ma anche bianchi, fermati nella loro non voluta quotidianità. Perché l’esodo dei profughi è trasversale. “Ricordo ancora quelli dell’ex Jugoslavia, negli anni Novanta” racconta prima di portarci in un altro, meraviglioso viaggio: quello dentro l’opera di Dante Alighieri. “Ho osservato le piccole illustrazioni che Gustave Dorè ha fatto per la ‘Divina Commedia’ e le ho portate, a matita, su uno spazio più ampio”. Sono profughi anche loro, i dannati dell’inferno. 700 anni fa come oggi.

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