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Il grande insegnamento della Divina Commedia

da Redazione

Saliamo sulla barca a inseguire la virtù e la conoscenza fuori dalle terre conosciute. La meta del viaggio è il paradiso ma il punto di partenza è l’inferno. E ci vuole un poeta…

 

di Simona Bisacchi Pironi

 

Nella “Divina commedia” Dante ci insegna che la meta del viaggio è il paradiso, ma il punto di partenza è l’inferno. Per affrontarlo ci vuole un poeta che accompagni i nostri passi. Non un valoroso condottiero, non un vecchio saggio vissuto di teorie e concetti, ma l’anima gentile di chi racconta la vita in versi. Qualcuno che sappia spiegare all’uomo il senso di tanto dolore e tormento, aiutandolo a non lasciarsi travolgere, né dal giudizio di condanna sugli obbrobri del mondo né dalla pietà per destini ormai senza scampo. Secondo Roberto Benigni, “Dante ci invita a guardare in alto, ma ci spinge anche a vedere quanto siamo schifosi”. Le anime dei dannati sfilano sotto gli occhi del lettore, che si ritrova a camminare in un corridoio di specchi. E ogni specchio riflette parti di sé che mai si ammetterà di avere. Si svelano con violenza e infinita poesia le mille sfaccettature dell’anima, che è una ma contiene in sé interi mondi.

Si inorridisce davanti agli ignavi, prendendo le distanze da chi non sceglie da che parte stare, come se non si avesse mai fatto l’esperienza di servire “Dio e Mammona” (Luca 16, 13).

Si piange davanti alla sorte di Paolo e Francesca, che nessuno accetta davvero siano destinati alla dannazione eterna. E si è pronti a varcare le Colonne di Ercole, per seguire Ulisse che in eterno ci ammonisce: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguire virtute e canoscenza” (Canto XXVI, versi 118-120). Davanti a questi versi l’anima fa sempre un balzo. Come se all’improvviso si ritrovasse di fronte a qualcosa che aveva dimenticato. Un ricordo che sta lì, sulla punta del cuore, ma non si riesce a sviluppare appieno e alla fine si mette da parte, accatastandolo tra i sogni fatti in qualche notte scura. Ma non è un sogno ciò che quella frase risveglia. È un ricordo di cui non si ha più coscienza. Il ricordo delle proprie radici, del seme senza tempo da cui si proviene. Il ricordo di un momento in cui si erano scelte virtù e conoscenza come mete del proprio cammino.

E mentre si legge, ci si stupisce che l’inferno possa scatenare tanta meraviglia. Come ci si stupisce ci possa essere contentezza anche nel buio dei giorni. E per quanto ci abbiano insegnato che all’inferno ci stanno i cattivi, ci si ritrova a fare il tifo per questi condannati, a cogliere il perché delle loro azioni, fino a provare qualcosa di sublime come la compassione. Per il tempo di un verso siamo anche noi accanto a Ulisse, sulla sua barca, a decidere se sfidare i confini del mondo. E no… Non siamo così sicuri che ci saremmo fermati. E non siamo nemmeno sicuri che fermarsi fosse l’azione giusta da fare. Vediamo che sono finiti all’inferno, ma pensiamo che in fondo non se lo meritavano davvero. E allora saliamo sulla barca. A inseguire quella virtù e quella conoscenza fuori dal mondo, fuori dalle terre conosciute, per capire – un istante dopo, un istante troppo tardi – che quella virtù e quella conoscenza erano alla portata d’anima. Non là fuori. Ma qui dentro. Non in alto, ma in profondità. Perché non c’è avventura più ricca di peripezie, insidie e rivelazioni del conoscere se stessi, per raggiungere virtù e conoscenza. E salutare finalmente l’inferno.

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