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Le condizioni morali degli agricoltori

da Redazione

Le scrisse il senatore Pietro Ellero, “cittadino onorario” del monte Titano. Fotografia di 150 anni fa di un mondo fatto di fatiche e di poco affetto.

 

Meno celebre di Mazzini e di Saffi, eppure, a leggere la sua vita, può essere annoverato tra i “Mazziniani”. Pietro Ellero, giurista italiano e senatore del Regno d’Italia nella XVI Legislatura ma anche cittadino onorario sammarinese dal 22 gennaio del 1861, spese molte delle sue energie nella scrittura. E’ del 1858 la sua prima opera, un trattato intitolato “Della pena capitale” dove trattava ampiamente le sue teorie abolizioniste.

L’obiettivo della sua vita, l’abolizione della pena di morte (presente tra i principi del “mazzinianesimo”) fu raggiunto nel 1889.

Forte del successo incontrato dalla sua prima pubblicazione contro la pena di morte, Ellero continuò a scrivere.

Da Pordenone – come riporta il sito www.pietroellero.org – il 24 aprile 1859 indirizzava all’Associazione agraria friulana di Udine una lunga lettera intitolata Delle condizioni morali degli agricoltori in Friuli.

L’editore Forni, Sala Bolognese, nel 1987 ha pubblicato una ristampa anastatica Le superstizioni volgari in Friuli; in difesa del saggio sulle superstizioni volgari; le condizioni morali degli agricoltori in Friuli.

Nelle otto pungenti pagine il giovane Ellero si presenta in tutta la sua spigolosità: solo affrontando la dura verità delle misere condizioni dei contadini friulani può essere avviato un percorso, nell’interesse di tutta la comunità, per aiutare le parti sociali più deboli. Anticipando i tempi lancia un avvertimento: non esiste solo la questione cittadina della classe operaia, esiste anche la questione rurale dei contadini.

“L’odierno incivilimento del Friuli, se nei ceti alti e medi in gran parte avanza, nei bassi è ancora sconosciuto. Non so se le plebi rusticane, rurali, siano migliori o peggiori di due o tre secoli fa. I canti popolari delle nostre plebi agricole sono poca cosa, frivoli o sconci. Di nobili sacrifici, di patria, di memorie, di speranze generose non vi è cenno: unico soggetto è l’amore e non sempre puro… Del resto è raro che questo amore villereccio raggiunga quell’ideale arcadico cui talvolta le canzoni adombrano. Mi pare che non vi sia ceto come questo che meno concepisca e gusti la soavità degli affetti coniugali. I garzoni fanno all’amore, com’è noto, a sguardi talvolta, e il più spesso a gomitate: ma, appena sposati e passata la luna di miele, la donna diviene un arnese da gettare tra le ciarpe, cose di poco valore. Vedere un contadino a braccio con la moglie, tenerla per mano o farle carezze, è cosa insolita. La loro più grave preoccupazione è quella di faticare per vivere. Non si deve credere che la mancanza di più alte aspirazioni avvenga per eccesso di bassi desideri. Eccettuati alcuni piccoli proprietari della parte montana della provincia e di alcune terre privilegiate, come per esempio Cordenons, i nostri villici sono poveri, anzi mendicanti, perché non hanno risparmi e solitamente sono gravati da debiti verso i padroni. In questo modo essi vivono necessariamente sotto perpetua tutela dei padroni, la quale toglie loro, insieme con l’interesse proprio, la responsabilità e la dignità personale. Non deve dunque meravigliare che costoro dimentichino di essere cittadini e non sentano di essere popolo: parlar loro di patria e di garanzie politiche è come parlare della Cina e dei geroglifici. Così avviene che in tutta Italia, e nel Friuli in modo particolare, non ci sia nel popolo rurale la coscienza degli alti destini e dei doveri della nazione. Il fatto è che l’organismo tipico del popolo italiano è stata la città, della quale il contado fu ritenuto sempre un territorio vassallo.

Ma gli agricoltori costituiscono il maggior numero e la base della nazione: è necessario pertanto conciliarli con la civiltà e affratellarli ad un governo che desideri avere cittadini anziché servi. Mentre le plebi cittadine disprezzavano i baroni e i loro scherani, quelle rustiche dovettero a

lungo subirne le prepotenze. Qui a Pordenone si ha nei fatti un chiaro esempio di una situazione che ha provocato l’attuale ritardo: “Non lunge dalla loggia del libero comune, torreggiano le ruinose castella dei valvassori: e mentre la picciola città di Pordenone reggeasi a libertà, a sembianza delle altre italiche, poco discosto, dai manieri di Torre, di Zoppola, di Porcia, di Prata, scende sterminatrice sui curvi vassalli la spada dei lor signori”.

Tuttavia, alla classe della società eletta per ricchezza o per intelligenza si può attribuire la colpa di troppa negligenza nel provvedere la cultura morale ed intellettuale dei villici. A questo fine dovrebbe, a parer mio, rivolgere i propri sforzi l’Associazione agraria friulana.

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