Il “capolavoro” di Niccolò Tommaseo è un lavoro sulla lingua italiana dell’Ottocento: il suo volume fu “adottato” anche da straordinari pensatori e letterati del tempo, come ad esempio il D’Annunzio.
La “fortuna” di Nicolò Tommaseo è legata alla pubblicazione di un l’opera, il “Nuovo Dizionario de’ Sinonimi della lingua italiana”, pubblicata nel 1830 e che fece apprezzare al grande pubblico le sue capacità linguistiche.
La “genesi” del libro ha una storia lunga e complessa, e nasce dall’interesse sempre vivo che l’autore ebbe per la lingua e per la lessicografia in particolare. Ancora sedicenne, abbozzava le “Regole necessarie alla facitura di un lessico latino”, rimaste incompiute, ma è negli anni del primo soggiorno fiorentino che questo suo interesse diventa organico e concreto. Verso il 1827, procuratasi una copia dell’edizione 1806 del Vocabolario della Crusca, cominciò ad interfoliarla con pagine fitte di appunti, e nel 1830 pubblicò, come detto, il suo capolavoro. Fu probabilmente sulla scia di questo successo che nel 1835 l’editore torinese Luigi Pomba contattò il Tommaseo per una nuova e più importante opera lessicografica. Passarono più di vent’anni prima che l’opera avesse effettivamente inizio.
Nel 1853, il Guigoni, che aveva temporaneamente affiancato il Pomba nell’impresa, definì meglio il taglio del lavoro (che doveva essere un “Vocabolario Generale”) e nel 1856 fu firmato il contratto. La stesura vera e propria iniziò nel 1857 e proseguì per quasi un ventennio, articolandosi in otto volumi, apparsi tra il 1861 e il 1874. Il Tommaseo morì nel 1874, e spettò a Giuseppe Meini portare a compimento gli ultimi due volumi: “Dalla voce Si in poi (dove rimase il Tommaseo), il Dizionario, bene o male che sia condotto (non spetta a me giudicare), è tutta opera mia”.
E’ un verosimile vocabolario dell’uso per gli anni 1860-1870 e presenta un lemmario molto ampio che attesta tutto il patrimonio della tradizione, corredato di citazioni di autori del Settecento e Ottocento, tra cui Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi e Alessandro Manzoni, allargando così il canone degli “auctores” che l’Academia della Crusca aveva fissato.
Un illustre fruitore del Dizionario del Tommaseo fu Gabriele D’Annunzio.
Altra caratteristica importante è la ricca fraseologia di esempi, che il Tommaseo inventò a tavolino per documentare gli usi vivi; inoltre ci sono molte attestazioni di lemmi tecnico-scientifici, frutto di un lavoro d’équipe, in cui hanno dato il proprio contributo una pluralità di collaboratori ad hoc per ogni materia. Proprio per questo l’opera è in parte disarmonica, particolarmente nelle voci polisemiche. Al Tommaseo è stato inoltre rimproverato di essere intervenuto con commenti personali alle citazioni di alcuni autori, tra cui Leopardi. Il personalismo è presente in tutto il dizionario: ogni voce è infatti siglata dal suo autore.
LE PAROLE DELL’AUTORE
Gli intenti dell’opera sono chiari nelle parole dell’autore. “Una gran parte adunque delle voci ch’io prendo a considerare riguardano oggetti corporei. Un chimico, per esempio, non iscambierà mai la forza dell’attrazione con le leggi dell’affinità; nè alcun uomo ragionevole chiamerà odio l’antipatia, o vanità l’arroganza: ma non pochi forse e parlatori felici e leggiadri scrittori delle più colte provincie d’Italia potranno scambiare tra loro le frasi a cavalluccio, a cavalcione, a cavallo; o le idee espresse da questi tre modi comprenderanno sotto un solo , a scapito se non della chiarezza, certo della proprietà e della grazia”.
QUALCHE ESEMPIO
Rimandando il lettore all’opera integrale, vi proponiamo un piccolo antipasto, un esempio concreto che si può incontrare alla lettera A, e che di mostra, palesemente, la vivacità e l’acume di Tommaseo.
Sulla parola “Abiettezza” l’autore scrive: “E’ adoprata da Paolo Segneri (un gesuita, scrittore e predicatore italiano che ha operato nella seconda metà dei Seicento, ndr). solo: ma quand’anche io ne avessi l’autorità, non oserei espellerla dalla lingua. Abiezione esprime lo stato; abiettezza, la disposizione dell’animo. L’uomo oppresso dall’ingiustizia geme nell’abiezione; questa però non penetra nel suo spirito; non vi genera l’abiettezza del sentimento. Ma come faremo noi ad esprimere l’animo abietto di un potente fortunato? La sua non è abiezione, è abiettezza. Insomma, la prima (abiezione, ndr) può esprimere una sventura, la seconda (a abiettezza) una colpa. E quand’anco parte dell’esterna abiezione entrasse nell’animo dell’infelice, la sua non sarebbe ancora abiettezza. Tra l’una e l’altra correrebbe la differenza che è tra avvilimento e viltà, tra abbassamento e bassezza. Altri dirà in tal caso il senso della voce ‘abiettezza’ può essere espresso appunto dalle altre voci più note, bassezza, viltà. Ma l’abiettezza è più dispregevole, più profonda, più volontaria, più rea”.