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San Marino, la spesa corrente sale: arriverà al 91%

da Redazione

Aumenta anche l’entrata tributaria, ma buona parte verrà utilizzata per stipendi e spese fisse della Pubblica Amministrazione.

 

di Daniele Bartolucci

 

La spesa corrente continua a crescere e, secondo le previsioni contenute nella finanziaria, crescerà ancora, e molto, nei prossimi tre anni. Perché se è vero che “la spesa corrente per l’esercizio 2016 ammonta a 457.360.624,63 euro e presenta un aumento dello 0,91% rispetto alla previsione iniziale 2015 e dello 0,68% rispetto alla previsione assestata 2015”, si legge nella relazione tecnica allegata al Progetto di Legge, è sintomatico come “in riferimento al consuntivo 2014 la spesa corrente aumenta del 3,63%”.

E per il futuro sarà anche peggio: 458.345.014,54 euro nel 2017 e 460.783.599,77 euro nel 2018. In pratica 3,42 milioni in più nel giro di due anni. E questo nonostante gli interventi di ‘spending review’ degli ultimi anni e di quelli, comunque messi in finanziaria, per l’avvenire. Il valore di questi interventi si misura anche, ma non solo, per gli effetti che hanno nella spesa corrente: se questa aumenta invece che diminuire – ed è un dato di fatto – probabilmente gli interventi, per quanto necessari e opportuni, non si sono rivelati così decisivi quanto auspicato, al netto dell’opinione di molti addetti ai lavori, che gli interventi e le scelte da compiere fossero ben altre. Proprio sul fatto che si tratti di scelte, è interessante notare che anche le entrate tributarie stanno aumentando e si prevede che aumentino anche nei prossimi anni, passando dai 405.547.200,00 euro del 2015 (post assestamento) ai 424.984.100,00 euro del 2018. A tal proposito va evidenziato che la tassazione generale non dovrebbe venire modificata in maniera molto marcata, eccezion fatta ovviamente per l’aumento dell’imposta complementare dei servizi dal 3 al 4%, che comunque va messa a confronto con la non ripresentazione delle misure straordinarie degli anni precedenti, dall’addizionale IGR del 2011 alle disposizioni nei confronti dei lavoratori frontalieri del 2010 (cd. tassa etnica), all’imposta straordinaria sugli immobili attuata nel 2013. Va inoltre evidenziato che il gettito IGR è tornato a cresce già tra il 2013 e il 2014, proseguendo nel corso del 2015, tanto che per il 2016 si prevede un ritorno quasi ai livelli pre crisi: 108,8 milioni di euro, molto vicini ai 111,6 del 2007. L’aumento del gettito fiscale – dovuto anche all’introduzione del sistema Smac e a controlli più stringenti nella lotta all’evasione – se non ottenuto artificiosamente con aumenti evidenti delle imposte, porta con sé più elementi positivi: da una parte evidenzia che i segnali di ripresa, seppur timidi, ci sono, come conferma anche il lieve aumento del numero degli occupati (soprattutto nel manifatturiero), secondo l’equazione più lavoro uguale più tasse; dall’altra è manna dal cielo per le casse dello Stato, che può finalmente programmare investimenti, spese in conto capitale e nuovi servizi, ma anche ideare nuovi strumenti per velocizzare quella ripresa (agevolazioni, contributi, incentivi, ecc). Ed è qui che entra in gioco la scelta di chi governa: dove destinare le maggiori entrate? La risposta si trova nella finanziaria, che per il 2016, 2017 e 2018 prevede appunto che a fronte di un aumento di entrate tributarie corrisponda, anno per anno, un aumento della spesa corrente. Questo parallelo non basta, però, a definire in maniera assoluta che la scelta politica appena fatta dal governo sia quella di utilizzare le nuove risorse per ‘ingrassare’ la Pubblica Amministrazione (anche perché l’impegno era di ‘metterla a dieta’), che resta la più grande impresa del Paese, ma che non ha subito gli effetti della crisi come le altre (private, ndr), a meno che non si vogliano paragonare i prepensionamenti con licenziamenti e cassaintegrazione. Il punto è, come detto, che la spesa corrente non serve unicamente a mantenere la macchina pubblica: come scritto relazione tecnica, “la spesa corrente contiene al suo interno, oltre alla parte di spesa fissa ed obbligatoria per il funzionamento dell’amministrazione, anche una parte di spesa relativa allo sviluppo del sistema economico e sociale del paese ed alla realizzazione di importanti progetti”, tanto che “le spese di sviluppo dovrebbero rappresentare una evidenza nella struttura del bilancio”. A questo punto l’evidenza occorre farla ‘a mano’, punto per punto. Comprendere quali siano i capitoli relativi allo sviluppo non dovrebbe essere complicato: basta infatti sottrarre al totale di 409 milioni i 106.683.140 euro per gli oneri retributivi del personale dei vari Uffici e Servizi dell’Amministrazione pubblica (comprese le trasferte), i trasferimenti all’ISS per complessivi 109.188.000 euro, i 480 mila euro per le consulenze, il milione e 100mila euro per i partiti politici, gli oltre 2 milioni a Banca Centrale (Tesoreria, Esattoria e altri servizi), i 500mila euro per la Smac, i 156 milioni di rimborso monofase (compensati dai 220 in entrata, con un saldo positivo di oltre 64 milioni), i 3,3 milioni all’Università, i 4,35 milioni al CONS, i 91mila all’Istituto Musicale, e così via. Resta poco per lo sviluppo, ammesso che, oltre ai 100mila euro stanziati per “l’attrazione degli investimenti e la promozione del sistema economico”, i 150mila per la “Promozione e lo sviluppo del sistema economico” (che comprendono anche gli oneri per il passaggio dal sistema monofase alla IGC) e i 600 mila euro di interessi sui ‘titoli di debito’ emessi per le opere e infrastrutture (30 milioni in tre anni, con 1,8 milioni di euro di interessi complessivi), ci siano altri capitoli da evidenziare in tal senso e non siano altre ‘attività obbligatorie’, come ad esempio i 1.670.000 euro previsti per “Promozione attività congressi, promozione e programmazione turistica, manifestazioni sportive e varie a valenza turistica”, normali per un Paese che è anche meta turistica e si fregia del titolo di Patrimonio Unesco. Al di là di queste sottigliezze e all’impossibilità – come del resto palesa anche la relazione tecnica – di distinguere quali siano realmente i capitoli per lo sviluppo dalla spese correnti ‘ordinarie’, sicuramente la fetta più grossa di questa uscita è rappresentata da queste ultime e non dai primi. In ogni caso, la conseguenza dell’aumento della spesa corrente non è un problema in sé, ma lo diventa nel rapporto con la spesa totale, ovvero nel confronto con la spesa in conto capitale, che nel linguaggio economico dovrebbe essere per definizione l’elenco delle spese per lo sviluppo (cit. dizionario Simone: “il contributo che lo Stato dà alla formazione del capitale produttivo del paese”), tanto è vero che comprende i trasferimenti all’AASLP e all’AASS per gli investimenti da farsi, i fondi per il risparmio energetico, gli oneri per i finanziamenti agevolati (edilizia sovvenzionata, credito agevolato per imprese e per l’agricoltura, eliminazione barriere architettoniche, prestiti sulla fiducia per gli studenti, credito per la ricerca…). Destinare più risorse alle spese correnti piuttosto che alla spesa in conto capitale, risulta essere quindi una scelta. L’aumento della spesa corrente, infatti, non è e non sarà solo evidente nel volume totale di euro messi a bilancio, ma soprattutto nella percentuale che essa rappresenta nel totale delle uscite: sempre nella relazione tecnica, nel capitolo riguardante la previsione pluriennale, si annuncia infatti che la spesa corrente nel 2016 rappresenterà l’85,56% della spesa totale escluse le partite di giro, nel 2017 salirà al 91,01% per assestarsi nel 2018 al 90,75%. Dando per scontato che entrate e uscite si equivalgano, solo un decimo (anzi, meno) di tutto ciò che lo Stato incasserà nei prossimi anni verrà destinato a spese in conto capitale. Questa situazione – lo sanno bene i Comuni italiani – si può sintetizzare con la locuzione “bilancio ingessato”.

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