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Stati Uniti: una strada su cui balla l’arte

da Redazione

Dall’America di Kerouac a quella di Fitzgerald, passando per il Klondike. Una sola persona prima di tutti gli altri vede la Statua della Libertà.

 

di Simona Bisacchi Pironi

 

Li hanno attraversati in un delirio di droga e giovinezza, lungo quella celebre strada che Jack Kerouac ha reso leggenda.

Fitzgerald li ha fatti calpestare da ballerini di jazz dai cuori stravaganti e dalle speranze ormai appassite.

Perché esistono gli Stati Uniti d’America reali, quelli che puoi scoprire prendendo un aereo e un po’ di tempo.

E ci sono gli Stati Uniti d’America immaginati, quelli di chi resta a casa, e li indovina guardando un film, sfogliando un giornale o aprendo un libro.

Questi Stati Uniti d’America qui, gli Stati Uniti d’America sognati, vagheggiati, presunti, sono gli Stati Uniti della caccia all’oro di Jack London.

Sono il Klondike di “Zanna Bianca”, che sopravvive all’odio, scopre l’umanità e il suo valore, tanto da essere pronto alla morte per difenderla.

Sono il mare impetuoso e senza scampo, dove si cela la balena bianca di Melville, ossessione di un’esistenza, senso estremo di una vita passata alla ricerca di qualcosa di grande e spaventoso, da combattere, e da cui lasciarsi inghiottire.

“Achab ammucchiava sulla gobba bianca della balena la somma di tutta la rabbia, di tutto l’odio sentiti dalla sua razza sin dai tempi di Adamo; e poi, come se il suo petto fosse stato un mortaio, le sparava addosso la carica del suo cuore ardente” (“Moby Dick”, Herman Melville).

Sono strade limitate da staccionate bianche, dove scorrazzano monelli alla Tom Sawyer, inseguiti da una zia Polly arrabbiata e divertita. Sono un grande fiume attraversato da Huck e Jim, alla ricerca di una libertà, che prende la forma di una zattera.

“Ci siamo detti che non c’era casa migliore della zattera, dopo tutto. Tutti gli altri posti sono così stretti e chiusi, ma la zattera no. Sulla zattera ti senti libero, tranquillo e felice” (“Le avventure di Huckleberry Finn”, Mark Twain).

In questi Stati Uniti d’America qui, in una casa qualunque dell’Illinois, può nascere Ernest Hemingway, e cambiare per sempre il modo di narrare il mondo.

E nasce la beat generation, e allora davvero l’America non sarà più la stessa, perché per chi legge Kerouac, e lo ama, gli Stati Uniti d’America saranno per sempre “Una macchina veloce, l’orizzonte lontano e una donna da amare alla fine della strada” (“Sulla strada”, Jack Kerouac).

Gli Stati Uniti d’America sono le citazioni di Charles Bukowski, un mondo dove “I cani avevano le pulci, gli uomini un sacco di guai” (“A sud di nessun nord”). Sono la paura di eclissi, pagliacci, e hotel in Colorado, grazie alla penna di Stephen King.

E sono un grido.

Gli Stati Uniti d’America sono un grido, felice e disperato, di chi li scorge per la prima volta dopo giorni e giorni di viaggio su un transatlantico, dove l’unica bellezza è data dalla musica di un pianoforte.

“Succedeva sempre che a un certo punto uno alzava la testa… e la vedeva. È una cosa difficile da capire. Voglio dire… Ci stavamo in più di mille, su quella nave, tra ricconi in viaggio, e emigranti, e gente strana, e noi… Eppure c’era sempre uno, uno solo, uno che per primo… la vedeva. Magari era lì che stava mangiando, o passeggiando, semplicemente, sul ponte… magari era lì che si stava aggiustando i pantaloni… alzava la testa un attimo, buttava un occhio verso il mare… e la vedeva. Allora si inchiodava, lì dov’era, gli partiva il cuore a mille, e, sempre, tutte le maledette volte, giuro, sempre, si girava verso di noi, verso la nave, verso tutti, e gridava (piano e lentamente): l’America. Poi rimaneva lì, immobile come se avesse dovuto entrare in una fotografia, con la faccia di uno che l’aveva fatta lui, l’America”. (“Novecento”, Alessandro Baricco).

Ma sono anche una domanda, secca e indiretta, dello scrittore Jonathan Swift.

“Chissà cosa avrebbe scoperto Colombo se l’America non gli avesse barrato la strada”.

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