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Il musicista che accorda gli uomini con le parole

da Redazione

Non ha un nome ma solo un cognome: Pekisch. Ed è figlio di Alessandro Baricco. A Quinnipack nessuno ti chiede di occuparti delle melodie degli altri.

 

di Simona Bisacchi Pironi

 

Non c’è una voce uguale all’altra.

E ci sono tanti strumenti che improvvisano musica lungo le strade del mondo.

Tutti suonano in modo diverso. Ma tutti possono trovare una stessa armonia.

A Quinnipack ognuno ha la sua nota.

Te la insegna il signor Pekisch.

Con un po’ di impegno tu la imparerai.

E quella nota sarà tua per tutta la vita.

Perché a Quinnipack suona un peculiare strumento, l’umanofono: un organo che invece delle canne utilizza le persone.

Ogni bocca è una nota.

Tutti insieme sono musica.

Nel mondo raccontato da Alessandro Baricco in “Castelli di rabbia”, il venerdì sera il signor Pekisch accorda il suo singolare strumento.

Non lo accorda con le mani. Non utilizza un diapason. Accorda gli uomini con le parole.

Spiega che ognuno ha la sua nota dentro di sé, e può riconoscerla tra mille.

Puoi anche scappare e rinunciare, nessuno ti rimprovererà, ma non puoi negare di averla.

Il signor Pekisch non ti obbliga, non ti insegue, ma senza di te quella nota rimarrà sempre muta.

Senza la tua storia, la tua esperienza, la tua voce, mancherà sempre un suono.

“La verità è che quella nota c’è. C’è ma voi non la volete ascoltare. E questo è idiota, è un capolavoro di idiozia, un’idiozia da rimanere di stucco. Uno ha una nota, che è sua, e se la lascia morire dentro… No… Statemi a sentire… Anche se la vita fa un rumore d’inferno affilatevi le orecchie fino a quando arriverete a sentirla e allora tenetevela stretta, non lasciatela scappare più. Portatela con voi, ripetetevela quando lavorate, cantatevela nella testa, lasciate che vi suoni nelle orecchie, e sotto la lingua e nella punta delle dita. E magari anche nei piedi”.

A Quinnipack nessuno pretende che tu sappia l’intera scala musicale, che tu sia responsabile della melodia degli altri, o ti impegni a riuscire in un accordo che non è proprio il tuo.

Non ti viene chiesto altro che di portare avanti la tua nota, solo la tua, fino in fondo, con tutta la dedizione e l’ardore possibile.

Perché la musica ha bisogno di quella nota, e solo tu puoi suonarla così bene.

Chi non ha mai sentito quello che sai fare non si accorgerà nemmeno della tua assenza. Ma un musicista non sceglie di stonare solo perché gli ascoltatori sono distratti.

E poi tu, ascoltando la musica che il popolo suona, avvertiresti sempre una pausa, un vuoto all’interno di una melodia di cui potevi far parte.

Perché per quanto ti sembri piccola, faticosa, e così insignificante da non farsi quasi sentire, quella nota è il tuo compito, è il tuo omaggio alla musica.

E se quella nota non vuoi proprio farla uscire, se la vuoi far star zitta, non la ridurrai al silenzio.

Girerà dentro di te, incessantemente.

Fino a che il rumore diventerà assordante.

Assordante.

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