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Il “Cigno di Pesaro”, pazzo per il cibo

da Redazione

Gioachino Rossini amava la cucina forse più della musica: “Sono un pianista di terza classe, ma primo gastronomo dell’universo”. Leggenda vuole che pianse dopo aver fatto cadere un tacchino al tartufo.

 

di Daniele Bartolucci

 

Sull’opera artistica di Gioachino Rossini si sono scritti tutti gli elogi possibili, fino al paragone con Mozart, con cui ha condiviso la fama di enfant prodige, avendo iniziato a comporre musica da bambino (la prima opera compiuta arrivò solo a 14 anni). La notorietà, quindi, ha accompagnato fin dai primi passi il compositore, soprannominato “Il Cigno di Pesaro”, per omaggiarne i natali marchigiani, anche se la vera esplosione avvenne in quel di Bologna, dove si trasferì la famiglia. Una fama meritata, sia per la produzione artistica, che, attraverso vari generi musicali, ha lasciato in eredità al mondo lavori famosissimi e celebrati quali Il barbiere di Siviglia, L’italiana in Algeri, La gazza ladra, La Cenerentola e Guglielmo Tell. Ma anche nella vita privata Rossini ha fatto molto parlare di sé, per la passione per le belle donne, la vera o presunta depressione che l’ha deteriorato negli anni, ma anche e soprattutto per quella ‘pazzia’ che tutti gli hanno sempre riconosciuto per il cibo. Il peregrinare nella Romagna ottocentesca a causa delle idee politiche del padre, sicuramente ha aumentato l’attrazione verso la buona tavola, stante la nomea delle cucine di Ravenna, Ferrara e soprattutto Bologna ‘la grassa’. Certamente la seconda fase della sua vita fu ancora più caratterizzata da questo contatto ravvicinato con l’eccellenza culinaria, avendo scelto Parigi come sua dimora. Non a caso, tra i suoi amici più cari c’era Antonin Carème, lo chef più famoso del secolo, al soldo del barone Rothschild. E così, mentre la sua fama aumentava sempre più (nonostante l’inciampo, clamoroso, della prima del ‘Barbiere’ a Roma nel 1816, uno di quei momenti in cui il flop dell’artista si rivela un flop del pubblico, che non ne ha compresa la grandezza), anche la sua ‘fame’ aumentava di conseguenza. Nonostante i chili in più che si possono vedere nelle immagini dell’epoca, comunque, non era un vero e proprio bulimico, ma più un appassionato, un amante della cucina e anche uno studioso, attento e meticoloso. Tanto che amava condividere le proprie ricette, come fece con la compagna Isabella Angelica Colbran, proprio dopo i fischi romani al ‘Barbiere’: la sua preoccupazione non era infatti l’insuccesso, “ma ciò che mi interessa ben altrimenti che la musica, cara Angelica, è la scoperta di una nuova insalata della quale mi affretto a inviarti la ricetta”. Del resto, lui stesso amava definirsi “pianista di terza classe, ma primo gastronomo dell’universo”. Una passione che esplose, al pari della straordinaria produzione dell’età giovanile, quando decise di ritirarsi a vita privata: di questo ultimo periodo si ricordano infatti solo le due opere sacre “Stabat Mater” e “Petite messe solennelle”, oltre a cantate e piccoli pezzi per piano raccolti sotto il titolo di “Peccati di vecchiaia”, con intestazioni irrituali ma al tempo stesso molto indicative, come “Gli antipasti”, in cui i singoli brani si chiamano “Ravanelli”, “Acciughe” e “Burro”. Se poi cucinasse lui stesso o, data la fama e quindi una notevole ricchezza, preferisse gustare i piatti creati da altri, resta un piccolo mistero. O almeno, documenti non ne esistono, mentre di aneddoti e leggende se ne conoscono diverse. La più celebre è forse quella delle lacrime di dolore: si narra che Rossini confessò di aver pianto tre volte nella vita, ovvero quando gli fischiarono la sua prima opera, quando sentì suonare Paganini e quando, durante una gita in barca, gli cadde in acqua un tacchino farcito di tartufi. Un dramma. Come pare fosse un grande disagio rimediare alcune delle prelibatezze italiane negli anni parigini: è noto infatti che si facesse spedire le specialità tipiche, direttamente dall’Italia: mortadelle, zamponi e insaccati, formaggi, dolci. Ed è a proposito di questa sua ‘necessità’ che probabilmente pianse anche una quarta volta: Rossini adorava infatti i maccheroni napoletani, desiderati al punto da firmarsi in una lettera a un conoscente, a causa di una spedizione ritardataria, “Gioacchino Rossini Senza Maccheroni”. Il senso dell’ironia non mancava a Rossini, e proprio riguardo alla sua passione per la cucina, scrisse un giorno: “Dopo il non far nulla, non conosco occupazione per me più deliziosa del mangiare […] Mangiare e amare, cantare e digerire: questi sono i quattro atti di questa opera buffa che si chiama vita e che svanisce come la schiuma di una bottiglia di champagne. Chi la lascia sfuggire senza averne goduto è un pazzo”.

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