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Si Fest Savignano: [Habitus], dagli abiti all’abitudine, dai costumi al costume

da Redazione

Un viaggio di andata e ritorno, dagli abiti all’abitudine, dai costumi al costume. Punto di partenza, l’assunto che la cultura è qualcosa che si indossa. Saranno Mike Brodie, fotografo statunitense che approda per la prima volta in Europa, Larry Fink, poliedrico autore dell’inedito The Vanities, e molte altre prestigiose firme del panorama fotografico nazionale ed internazionale a indagare il tema del SI Fest²⁴, [HABITUS]. Dagli abiti all’abitudine, dai costumi al costume. Il festival, in programma a Savignano sul Rubicone dall’11 al 13 settembre 2015 con apertura delle esposizioni fino al 27 settembre, propone 16 mostre, 21 autori, 15 lettori di portfolio e un fitto calendario di talks, seminari, incontri con l’autore. Immancabili il SI Fest Off e il SI Fest After, appuntamenti di punta di una serie di occasioni di approfondimento e di divertimento che da sempre fa della tre giorni romagnola un evento irrinunciabile per appassionati, fotografi e tutti coloro che a vario titolo di occupano di fotografia (www.sifest.it).


Habitus.

La nozione di costume, come quella di cultura, costituisce uno degli strumenti di lavoro dell’antropologia sociale e culturale. Autorevoli precursori di questi studi fecero nelle proprie opere riferimento ai costumi, nell’accezione morale di usi, abitudini, tradizioni caratteristici di una data società o di una data cultura.

Nella formulazione di Edward Burnett Tylor la cultura ingloba al proprio interno i costumi, i quali acquistano ordine e fondamento. D’altro canto, la dimensione dell’esteriorità, già propria dei costumi, viene ereditata dal nuovo concetto: dagli abiti all’abitudine, dai costumi al costume ritorna, in una sorta di gioco di parole, l’idea che la cultura sia qualcosa che ‘si indossa’.

Da queste brevi considerazioni emerge la linea sottile che separa il costume, nell’accezione sopra ricordata di stile di vita, dal costume inteso in senso materiale quale abito che copre il corpo. Nei suoi richiami più antichi, la parola fa dunque riferimento alla sfera della condotta, del comportamento e dell’abitudine. Lo studioso Marcel Mauss, preferiva parlare di habitus piuttosto che di abitudine perché la radice stessa di questa parola, dal latino, ne sottolinea l’origine esterna rispetto ai corpi. Secondo il sociologo francese Pierre Bourdieu, l’habitus contribuisce alla costruzione dell’universo sociale.


La moda non è frivola.

Quando si parla di moda vengono alla mente una serie di luoghi comuni accomunati dall’idea che l’entourage della moda sia la quintessenza della frivolezza, della vacuità e della superficialità.

Roland Barthes, con la sua serie d’interventi critici raccolti in Il senso della moda, ci aiuta a far piazza pulita di questi stereotipi e ci aiuta a cogliere un diverso aspetto della moda. Scriveva Barthes in premessa al suo “Sistema della moda”: «questo libro è un libro di metodo». È il punto. In storia e sociologia del vestito Barthes suggerisce di distinguere tra costume e abbigliamento che sono ‘la langue e la parole’ del sistema linguistico moda.

Alla fine degli anni cinquanta il Barthes «mitologo» affermava dunque perentoriamente, «la moda è linguaggio». E almeno su questo concetto non sembra tramontato il sole sessant’anni dopo.

 

Il distretto della moda del Rubicone. Made in Italy sul Rubicone.

L’industria della moda in Italia non è soltanto un settore produttivo come un altro. Sostiene l’export, stimola creatività e innovazione, è anche forma d’arte.

In tempi di crisi diffusa, può diventare sacrilego parlare di moda, che è sinonimo di lusso. Eppure, non è così. I grandi marchi puntano all’artigianato, a lavorazioni minuziose dei materiali per rendere il prodotto inimitabile, contro l’invasione del “fast fashion”. Gli stilisti hanno fatto cordata per difendere la libertà intellettuale del “made in Italy”, e i risultati di recenti analisi economiche confermano che i fatturati del settore moda sono prevalentemente positivi, grazie in particolare ai mercati esteri.

Il nostro stesso territorio, l’area del Rubicone, contiene il distretto produttivo del calzaturiero femminile ad altissima densità produttiva, nel segno dell’alta innovazione creativa e qualitativa.

Il settore moda nel nostro territorio, sia per il calzaturiero sia per l’abbigliamento, rappresenta un asse industriale di fondamentale importanza, fortemente radicato nella nostra dimensione culturale di comunità.

Non è quindi casuale che quest’anno il SI Fest, proponga di indagare attraverso alcuni stilemi della fotografia di costume, anche la fotografia di moda, come vero e proprio omaggio a questo territorio che, anche attraverso le produzioni dell’industria della moda, ha saputo affermarsi e rappresentarsi partendo dall’asse del fiume Rubicone fino alle capitali di tutto il mondo.

Moda e fotografia si relazionano con grande importanza: l’immagine è fondamentale per la diffusione di massa e per l’affermazione dello stile. Scriveva Arturo Carlo Quintavalle alcuni anni fa: “La moda non è stata considerata degna, salvo pochissime eccezioni, di considerazione nel nostro paese da parte degli accademici, e non è stata ritenuta degna neppure di attenzione, di considerazione storica da parte degli specialisti…

Serve integrare, insomma, la moda alla nostra cultura non certo nei fatti, perché la moda si serve degli strumenti moderni del comunicare meglio di molte altre aree produttive della nostra società, ma serve integrarla nelle consapevolezze stesse degli intellettuali che, magari, la moda, in qualche maniera, tendono a leggere con critico distacco. Così intendiamo stabilire una precisa funzione della moda nel sistema delle coscienze della critica, e crediamo che questa operazione sia necessaria, anzi urgente, e comunque preventiva. Infatti o la moda assumerà la funzione di segnaletica antropologica dei comportamenti e verrà considerata alla stessa stregua del teatro sia pur “di strada” e dei suoi differenti generi, oppure lasceremo che ci sfugga uno dei fatti più rilevanti della nostra cultura…”

 

LE MOSTRE E GLI AUTORI.

MIKE BRODIE, A Period of Juvenile Prosperity + Tones of dirt and bone.

A Period of Juvenile Prosperity, titolo della mostra fotografica che sarà presentata al SI Fest di Savignano sul Rubicone in anteprima assoluta europea, è un progetto del fotografo statunitense Mike Brodie, che racconta la sottocultura giovanile punk e squatter in viaggio tra treni merci e stazioni: lo stile di vita basato sul movimento costante in treno, in giro per tutta l’America, saltando sui vagoni senza farsi vedere. L’esposizione verrà arricchita anche dalla proiezione, appositamente prodotta per il SI FEST, del suo primo lavoro fotografico su Polaroid Tones of dirt and bone.

Nel 2004 a 19 anni Brodie ha iniziato un viaggio concluso nel 2009 e andato avanti per 50.000 chilometri attraverso 46 stati americani, senza una meta precisa, fotografando i suoi compagni di viaggio, gli incontri, le situazioni, i paesaggi, prima con una macchina Polaroid SX-70(guadagnandosi quindi il soprannome di Polaroid Kid) e poi con una pellicola 35 mm.

Brodie non ha mai studiato fotografia ma la sua composizione sembra richiamarsi a fotografi come Robert Frank, William Eggleston e Nan Goldin. Le storie assomigliano a narrazioni moderne di Mark Twain o Jack Kerouac.

Dice Alec Soth: “Volevo davvero che questo libro non mi piacesse, ma sono stato totalmente sedotto dalle fotografie, dal disegno grafico e persino dal testo scritto da Brodie”.

 

LARRY FINK, The vanities + The beats

Larry Fink è fotografo professionista da oltre 55 anni. Ha esposto al Museum of Modern Art, il Whitney Museum of Modern Art, il San Francisco Museum of Art, il Musée de la Photographie, in Belgio, e il Musée de l’Elysée in Svizzera, il Festival Rencontres Arles. Il premio Infinity Award che Larry FInk ha vinto quest’anno presso l’ICP di New York ha accresciuto ulteriormente il prestigio dell’artista. La mostra Vanities, inedita in Italia, s’inserisce perfettamente nel tema di quest’anno, Habitus. Uno specchio completamente originale della mondanità hollywoodiana. Il libro pubblicato da Schirmer&Mosel, ha ottenuto enorme attenzione. Egli è personaggio poliedrico, musicista appassionato, insegnante eccezionale, figura autentica e quindi controversa del mondo dell’arte. La seconda mostra esposta al SI Fest, The Beats, completa il percorso espositivo su Larry Fink, in quanto rappresenta il suo primissimo lavoro, quando non era ancora maggiorenne: l’inizio di tutto. L’insieme delle immagini ritrae una generazione che ha fatto storia, un’esperienza sociale e culturale che ha inserito nella vita di tutti noi costumi, stili e abitudini nuovi.

 

FELICE BEATO, un omaggio. La fotografia in Giappone e la scuola di Yokohama

La Fratelli Alinari presenta le più belle fotografie di Felice Beato conservate nelle Raccolte Museali Fratelli Alinari di Firenze. Le prime fotografie sul Giappone al momento della sua apertura all’Occidente sono infatti rappresentate dalle meravigliose immagini realizzate dal fotografo veneziano naturalizzato inglese, che istituirà una nuova produzione fotografica conosciuta come la “scuola di Yokohama”. Il corpus presentato è costituito da venti preziosissime e raffinate stampe all’albumina colorate a mano da negativo al collodio.

 

GABRIELE BASILICO, Iran 1970

Nell’estate 1970 Gabriele Basilico parte da Milano con una Fiat 124, ipotetica destinazione Kabul. È il viaggio iniziatico della generazione dei figli dei fiori, la strada verso l’India, e Basilico ha intenzione di realizzare una serie di foto da vendere a qualche rivista. Il progetto non giungerà a compimento, ma nell’archivio personale quegli scatti furono accuratamente custoditi e il fotografo milanese pensò qualche volta di farci un libro. Come scrive Luca Doninelli nell’introduzione è un “Basilico prima di Basilico”, il reportage tra Jugoslavia, Turchia e Iran che sarà la meta del viaggio nel quale si colgono i segni della nascita di una vocazione.

Giovanna Calvenzi, compagna di Gabriele e testimone di quel viaggio, racconta sulle pagine della curatissima pubblicazione da poco data alle stampe, quest’avventura e un’epoca di grande libertà.

 

MARTINA BACIGALUPO / Gulu real art studio

Martina Bacigalupo, è nata a Genova nel 1978 e attualmente vive in Africa orientale.

L’autrice racconta di un viaggio di lavoro in Uganda. In uno studio fotografico artigianale di Gulu, seconda città del Paese, vide un mucchio di fotografie di persone da cui la faccia era stata rimossa con uno stampino. Era così infatti che il fotografo locale, Obal Denis, preparava le foto per i documenti. Faceva accomodare nel suo studio gli interessati, magari fornendogli una giacca o altro indumento, li fotografava a figura intera, stampava l’immagine, tagliava la sola testa per il documento e buttava via il resto. Ma proprio questa rimanenza racconta una storia, mostrando gli abiti, le scarpe, le mani rugose di questi uomini e donne. E l’assenza del viso pare alludere a come essi in particolare, e l’individuo in genere, gestiscano la loro personalità, la loro condizione di uno fra mille e milioni, in Africa come altrove. Sicché Martina si è fatta dare dall’amico fotografo queste rimanenze e le ha trasformate in un lavoro d’arte fotografica. In questo caso l’attività del fotografo sta nel creare un’immagine dove non c’era, non fisicamente realizzandola, ma riconoscendola, estrapolandola dal suo contesto, facendola parlare e dandole un nuovo senso.

 

PAOLO VENTURA, Short stories

Illustratore e fotografo milanese, classe 1968, porta i sogni nella sua arte per creare micro-mondi. «Piccoli teatri animati» li ha definiti Ventura, in cui recitano diversissimi personaggi, sempre interpretati dal fotografo-trasformista, dai suoi familiari e dall’inseparabile fratello gemello. Ma non sono classici autoritratti: «Il motivo principale della mia autorappresentazione è, banalmente, perché sono sempre disponibile. Poi, considerando che sono cresciuto con un gemello identico – uno specchio scomodo – è stata anche l’occasione per affermare la mia identità».

«All’inizio cercavo delle immagini come le cerca un fotografo andando in giro per strada», spiega Ventura. «Poi, dato che non riuscivo a trovare quello che cercavo, le ho prese all’interno, costruendole come si fa nel cinema». E sono proprio dei cortometraggi su carta le sette Short stories che saranno esposte a Savignano.

 

GIULIA MARCHI, Sullòrlo

Giulia Marchi nasce a Rimini nel 1976, dove vive e lavora. Frequenta la Facoltà di Lettere e Filosofia con indirizzo classico all’Università di Bologna. Costruisce da sola le proprie macchine fotografiche rubando l’anima a scatole di carta o a piccole cassettine di legno. Ha partecipato a numerose mostre in Italia e all’estero, sia di carattere collettivo che personale ottenendo consensi di pubblico e critica.

 

MUSTAFÀ SABBAGH, #000 – tuxedo riot

Mustafà Sabbagh nasce ad Amman (Giordania). Italo – palestinese, cresciuto tra l’Europa e il Medio Oriente, il suo imprinting è cosmopolita, mentre il suo atteggiamento è nomade. Dopo una carriera di successo come fotografo di moda riconosciuto dalle più prestigiose riviste del mondo, Sabbagh concentra la sua ricerca ridefinendo la storia dell’arte attraverso la fotografia contemporanea, creando una sorta di contro canone estetico al cui interno il punctum è la pelle, diario dell’unicità dell’individuo. Un’estetica del disagio, armonia dell’imperfezione, indagata attraverso il medium fotografico, così come attraverso la videoarte. Scatti unici, capaci di trattare la pelle al pari di un tessuto pregiato: non un semplice fotografo di moda, ma un poeta dell’immagine, innamorato del corpo umano e della sua sinuosa bellezza.

 

CLAUDINE DOURY, Loulan beauty

Claudine Doury è una fotografa francese e vive a Parigi. Ha ricevuto il Premio Leica Oscar Barnack nel 1999, il World Press nel 2000 e il Premio Niepce per il suo lavoro nel 2004. Claudine Doury è membro della prestigiosa Agenzia VU’ di Parigi.

La mostra esposta al SI Fest è una storia di una lenta scomparsa, nella sabbia e nel tempo. La fine di un mondo, un viaggio attraverso la parte centrale della provincia sovietica dell’Asia e nello Xinjiang in Cina.

“Avevo letto Djamila, dal poeta di Kirghizistan Tchinguiz Aitmatov, e mi ha fatto sognare i kolkhos persi nelle steppe e dei suoi popoli: uzbeki, kazaki, kyrgyzs, karakapalks …”, scrive Claudine.

Dal 2002 al 2005, sono riuscita a recarmi nella regione Aral in Kazakistan, Uzbekistan, sulle rive del lago di Ysykköl in Kirghizistan e nello Xinjiang. Loulan Beauty è la storia di questi popoli dal centro del mondo, eredi di regni affondati, di pescatori senza un mare, di bambini che ballano in attesa di riabbracciare i loro genitori che lavorano lontano, di Lola che sogna l’America, di uomini che ascoltano il canto delle sabbie.

 

TOMMASO TANINI, H. said he loved us

Tommaso Tanini, di madre ungherese ha vissuto indirettamente l’esperienza dell’oppressione governativa di regime attraverso i racconti dei nonni paterni e dei parenti che vivevano in Ungheria durante il governo di Kádár.

H. Said He Loved Us è un progetto che attinge alla storia della DDR e al Ministero Tedesco per la Sicurezza dello Stato (Stasi) per indagare i sentimenti di paura e di oppressione causati dal vivere in una condizione di costante sospetto e diffidenza. Il progetto combina e sovrappone ricerca archivistica e documentaria con una ricerca fotografica personale e soggettiva ispirata dal libro L’uomo è forte scritto nel 1938 dallo scrittore Corrado Alvaro. I ritratti insieme ai paesaggi urbani della Ex-Germania Est e agli interni anonimi creano una tensione irrisolta tra l’atto di spiare e l’essere spiati. Dal 1994 il materiale distrutto viene conservato e ricostruito dalla Commissione Federale per gli Archivi della Stasi (BStU). L’obiettivo è quello di rendere il materiale restaurato accessibile. In molti casi le persone coinvolte scoprono di essere state controllate e denunciate da familiari, amici e colleghi di lavoro. Tommaso Tanini con questo libro ha vinto: 2015 Le Prix du Livre de Les Rencontres d’Arles, Author Book Award; 2015 Premio Marco Bastianelli per il miglior libro fotografico autoprodotto; 2014 Premio Marco Pesaresi per la fotografia contemporanea.

 

FRANCESCO FRANCAVIGLIA, Le donne del digiuno

Francesco Francaviglia, fotografo siciliano, nasce a Palermo nel 1982. A Palermo studia violoncello con Giovanni Sollima e regia alla scuola Téates diretta da Michele Perriera.

Nel 2009 vince una borsa di studio per la fotografia ad un concorso promosso dalla Provincia di Firenze dove si trasferisce per frequentare la Scuola Internazionale di Fotografia Apab coadiuvata dalla Fondazione Fratelli Alinari. Frequenta poi l’Istituto Europeo di Design a Roma e a Milano dove approfondisce il proprio interesse per la fotografia pubblicitaria e il ritratto fotografico.

Tra il 2013 e il 2014, a Palermo, da vita al lavoro “Le donne del digiuno”, che nel 2014 si aggiudica il Premio Portfolio Italia.

 

MONIA PERISSINOTTO, Tokyo nights

Tokyo nights è un lavoro molto articolato e di non facile comprensione, perché l’autrice è la sola a possederne la chiave di lettura più profonda. Tokyo è solo una scenografia davanti alla quale si muovono diversi attori, ma è la regia di Monia che riesce a rendere la complessità dell’opera.

Ogni lavoro può essere considerato autobiografico, ma questo lo è in maniera particolare, perché già dalla ripresa (il mosso, le inquadrature non convenzionali), l’autorialità è preponderante nella narrazione. Con questo lavoro l’autrice ha vinto nel 2014 il Premio SI Fest Portfolio.

 

THOMAS VAN DEN DRIESSCHE, How to be a photographer

Volete diventare fotografi? Thomas Vanden Driessche vi insegna come fare in 4 semplici lezioni. Le lezioni vengono dispensate sulle pagine di un carnet dal sapore retrò e vissuto dove però nulla è lasciato al caso, nemmeno le cancellature. Un piccolo capolavoro di ironia realizzato da un professionista che può tranquillamente permettersi di scherzare: Thomas è un fotogiornalista con un nutrito numero di mostre e premi all’attivo. Dopo aver collaborato a progetti patrocinati dalle Nazioni Unite e dalla Croce Rossa, oggi è contributor di diverse testate, assieme al collettivo Out of Focus dell’agenzia francese Picturetank.

 

SIMONE DONATI, Hotel Immagine

A San Giovanni Rotondo, a pochi passi dal santuario di Padre Pio, c’è un albergo che promette soggiorni all’insegna della spiritualità. Si chiama Hotel Immagine e sulla facciata campeggia il volto del Santo di Pietrelcina. Da qui prende le mosse l’omonimo progetto fotografico di Simone Donati, un viaggio attraverso i riti collettivi d’Italia, sacri e profani, per tradurre in 48 immagini la forza dell’aggregazione.

“Mi sono interessato a fenomeni di massa dove comunità eterogenee mostrano comportamenti simili tra loro – racconta il fotografo fiorentino del collettivo TerraProject – Il lavoro, oggi diventato un libro (autoprodotto), ha preso avvio nel 2008 quando ho iniziato a seguire i supporter del popolo della Libertà di Silvio Berlusconi L’anno dopo, invece, è stata la volta del culto di Padre Pio. Da queste due esperienze è nata poi l’idea di proseguire il “tour” alla ricerca di miti e icone dell’immaginario contemporaneo, partecipando agli eventi più disparati”.

 

No Panic Gallery/ENRICO DE LUIGI, Cosplayers

Da anni è un sodalizio collaudato quello fra SI Fest e No Panic gallery /Enrico De Luigi

E a vederlo, Chico, con la sua aria a metà tra alieno e folletto, il volto plastico, si comprende che ci deve essere una sorta di fluido che da lui emana e contagia i soggetti delle sue fotografie, famosi e non, e che li spinge a rivelare il proprio spirito più folle e irriverente. Per quest’edizione del SI FEST saranno presentati una serie di curiosi ritratti di Cosplayers. Cosplay è un termine formato dalla fusione delle parole inglesi “costume” (costume o maschera) e “play” (giocare o recitare) che indica la pratica di indossare un costume che rappresenti un personaggio riconoscibile in un determinato ambito e interpretarne il modo di agire.

 

BTOMIC/Jacopo Benassi

Per comprendere la tecnica di Jacopo non ci sono regole o confini: basta comprare una qualsiasi fotocamera e leggere il manuale d’istruzioni, dove sta scritto: Uso con il flash. “Ecco, io utilizzo sempre il flash nelle mie fotografie, è la mia luce, la mia penna”. Nelle fotografie di Benassi esiste una rinuncia in partenza, la luce è l’eremita iniziale. Il fotografo, così attratto dai corpi e dalle consunzioni, mette in scena anche se stesso e sceglie soltanto volti che lo guardano e non sorridono quando scatta. Ad attirare Benassi è la vita intima delle persone.

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