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Teatro, Festival di Santarcangelo: la classifica degli spettacoli visti

da Redazione

Dopo i dubbi dell’edizione 2014 – è sembrato un cartellone di “fine mandato” -, il programma 2015 è stato piuttosto interessante: due perle di rara bellezza (Motus e Amir Reza Koohestani), molti spettacoli densi di spunti, altri dai pareri discordanti.

 

di Alessandro Carli

 

La 45esima edizione del Festival di Santarcangelo, la quarta diretta da Silvia Bottiroli, ha battuto i pregiudizi e la legge ferrea del numero 3, quello cioè che vede compiersi la nascita, vita e morte del teatro. Il primo lascito della kermesse, che si è conclusa domani 19 luglio, riguarda proprio la le fasi della vita e l’arco temporale: ogni anno ha uno sguardo autonomo, e, come nella raccolta dei prodotti della terra, una stagione di siccità non sempre rovina le future piantagioni.

Dopo i dubbi dell’edizione 2014 – è sembrato un cartellone di “fine mandato” -, il programma 2015 è stato piuttosto interessante: due perle di rara bellezza (Motus e Amir Reza Koohestani), molti spettacoli densi di spunti, altri dai pareri discordanti.

Greta Garbo di MASBEDO e Vladimir Aleksic, presentato in una replica secca il giorno della chiusura del festival, è un lavoro a due facce: una sincera e struggente base di partenza (il ricordo di Damir Todorovic, attore, performer e artista slavo scomparso prematuramente l’autunno scorso che ha lavorato con i Motus) e una non precisa realizzazione scenica. Musiche interessanti, così come le immagini proiettate sullo schermo e la scelta dei video in presa diretta. Interessante lo scivolamento tra la vita dell’attrice e la torta finale offerta anche al pubblico. Peccato la voce, penalizzata fortemente dai microfoni, che rendono la performance una specie di calderone un po’ confuso.

Archive di Arkadi Zaides è un lavoro non “di danza” ma “sulla danza”: su un megaschermo girano le immagini del conflitto palestinese e Zaides, attraverso un telecomando, rallenta e velocizza i frame, imita i movimenti delle persone che appaiono nel film. Idea comunque “contemporanea”, onesta, senza oscillazioni e senza emozioni.

(untitled) (2000), ultimo lavoro coreografico firmato da Tino Sehgal e portato in scena da Boris Charmatz al Lavatoio, ha suscitato – al di là del valore dello spettacolo, un omaggio alla danza del Novecento – un vespaio di polemiche. Non tanto per la totale nudità del danzatore, ma quanto per la chiusa, incorniciata da abbondanti citazioni legate a Duchamp: Boris difatti si gira verso il pubblico e, dopo aver suonato come una chitarra il proprio sesso, si mette a fare la pipì. Un gesto del tutto ordinario che, stranissimo, a teatro fa (ancora) scalpore. Detto che queste provocazioni sono già state fatte in passato – cosa da anni Settanta, gesto eseguito alla perfezione anche da Carmelo Bene in un lavoro che ha fatto tappa anche al Bonci di Cesena -, l’assolo meritava di essere inserito nel cartellone 2015 del festival.

Ben più complicato è invece riflettere attorno a Vita agli arresti di Aun Saan Suu Kyi, la rivisitazione che il teatro delle Albe ha fatto della vicenda della birmana Aung Saan Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace nel 1991. Lo spettacolo, anticipato da eccellenti recensioni, racconta la vita più intima della donna orientale: gli attori in scena sono di una bravura che fa male agli occhi – Ermanna Montanari è entrata alla perfezione nel personaggio -, così come la regia, firmata da Marco Martinelli e, come sempre, disegnata alla perfezione.

Lavoro molto sincero, molto “Albe” – il coro a tre voci era presente anche nello spettacolo dedicato al ciclista Marco Pantani -, che pecca però, lungo le due ore e mezzo di mise en scene, di eccessiva verbosità: rappresentazione un po’ didascalica, che decolla solamente nei rari momenti in cui Ermanna si lascia andare ai movimenti del corpo, a microdanze: lì, lasciate decadere le parole, le vette emotive toccate sono altissime.

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