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Santarcangelo Teatro 2015, recensione di “Timeloss” di Amir Reza Koohestani

da Redazione

Amore, distacco e separazione – ma anche differenti punti di vista, di abitudini, di colpe da far ricadere sull’altro – qui assumono una sguardo più adulto, probabilmente anche più pessimista.

 

di Alessandro Carli

 

Un frammento di Dance on glasses, proiettato su due pannelli verticali appoggiati al fondale, in cui un giove Orfeo e una freschissima e bellissima Euridice danzano, tra le note di A thousand years di Sting, sopra un tappeto di bicchieri. Parte da qui – da questo passaggio datato 2003 ma ancora capace di emozionare – il nuovo spettacolo di Amir Reza Koohestani, il bellissimo e a modo suo beckettiano Timeloss, a Santarcangelo solamente per due repliche.

Come ieri – come in Dance on glasses – anche hic et nunc, qui e oggi, la lente di ingrandimento di ARK torna a parlare di Orfeo ed Euridice, diventati chiaramente più maturi fisicamente ma non nel cuore. Scenografia disegnata sulla pièce – due tavoli, due sedie, un gioco di luci dall’alto che disegnano i limiti delle stanze –, in Timeloss la struttura poetica dell’autore e regista prosegue il proprio percorso di ricerca, riportando gli stessi attori sul palco e duplicando il tavolo della tortura: se in Dance on glasses i due protagonisti erano seduti uno di fronte all’altro, qui ognuno ha la propria scrivania.

Amore, distacco e separazione – ma anche differenti punti di vista, di abitudini, di colpe da far ricadere sull’altro – qui assumono una sguardo più adulto, probabilmente anche più pessimista.

Lo spunto iniziale, quello che dà il là al gioco delle parti, è in realtà una necessità tecnica, ovvero quella di doppiare l’audio – pessimo – del DVD di Dance on glasses. Un pretesto che diventa immediatamente testo nuovo, amaro, in continua oscillazione tra le vere battute da recitare e alcune incisive e fredde parentesi sulla loro storia d’amore.

Domande senza risposte, domande che contengono già, nel silenzio, una risposta, che aprono un gioco di matrioske decisamente piene di ricordi, in cui Orfeo prova a riallacciare il legame con Euridice. Tentativo goffo, tenerissimo in alcuni passaggi, che fa forza sugli stessi errori del passato.

Poi, con l’entrata in scena della voce del regista-demiurgo, gli spazi si allargano, le posizioni in scena si sovrappongono, si interscambiano: lui diventa lei e lei diventa lui. Un dialogo tra fantasmi, di scelte fatte – per il Pavese dei Dialoghi con Leucò Orfeo si girò volutamente per perdere Euridice perché non si può amare una persona morta: il ricordo decapiterebbe la realtà – che non ammettono un ritorno. Nemmeno a teatro.

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