Tra le vie del Centro storico le sculture realizzate con i materiali di scarto.
di Alessandro Carli
Un omaggio alla terra che li ospita (si sono insediati a Santarcangelo di Romagna nel 1991), ma soprattutto la loro filosofia e la loro arte, che nasce da rifiuti inorganici di diverso tipo quali ferro, plastica, gomma, fibra di vetro, alluminio, rame e ottone per poi prendere vita attraverso sculture assolutamente uniche e inconfondibili. Dai primi di aprile e sino al 18 maggio le impronte e le punteggiature dei Mutoid stanno impreziosendo il centro storico della Repubblica di San Marino: 20 sculture, sparse a macchia di leopardo tra le vie e le piazze, colpiscono gli occhi e le attenzioni dei turisti ma anche degli stessi cittadini sammarinesi, un po’ spaesati davanti a queste bizzarre e meravigliose opere d’arte. L’insetto appeso sotto la volta della porta di Città, l’angelo che osserva il retro di Palazzo Pubblico, ma soprattutto la felliniana donna che “vigila” l’entrata della segreteria di Stato per il turismo, intitolata “La culona”, per poi incontrare l’asinello che ammira il panorama che scende verso la Riviera. Ma è forse con la giunonica matrona del Maestro Regista di Rimini che si respira la vicinanza e la riconoscenza di questo gruppo di artisti, Mutoid Waste Company, portati sul Titano all’interno dell’iniziativa mutoid.sm, l’evento a carattere artistico-culturale promosso dall’Associazione “Il Garage” e patrocinato dalla Segreteria di Stato per il Turismo e dalla Segreteria di Stato Istruzione e Cultura della Repubblica di San Marino e sponsorizzato, tra gli altri, anche dalla Fondazione Cassa di Risparmio S.U.M.S. Difficile dire chi tra le due artiste dei Mutoid abbia firmato l’opera (Lupan, ovvero Lucia Peruch, o Debi Wrekon), certo è che turisti e cittadini non riescono proprio a non fermarsi ad ammirarla: chi per qualche battuta riferita a qualche conoscente dal sedere abbondante (ogni persona ne conosce uno), molti invece in quel naturale accostamento a Federico Fellini. Curioso poi il rito della fotografia: quasi fosse una nuova “Giulietta” che ha abbandonato Verona per venire in vacanza sul Monte, si vedono turisti in fila per un click con una mano appoggiata non sul seno dell’amata da Romeo, ma sul lato b prosperoso (e metallico) della “burrosa” (e fredda) azdora.
Ma forse l’opera che ha catturato maggiormente la nostra attenzione è “L’angelo”, racchiuso in una nicchia della cinta merlettata del Monte, lungo la strada che dal Pianello porta alla funivia. Elegante, algido, dall’alto sembra osservare i visitatori. In questo robot alato sembra trovare matericità la poetica di Lupan, che “si esprime nel mettere in luce e lasciar così a sdipanarsi quel filo di energia sottile che da alcuni oggetti traspare in modo più evidente, sia per la suggestione estetico/simbolica delle forme, sia per il tempo e l’uso di cui essi si sono resi pregni, wabi e sabi, trasmutandone natura e funzioni per sublimarne l’illusione di vita”. Una vita che sa aprire le ali e spiccare il volo. E che forse raccoglie il gabbiano di Giorgio Gaber, quello che non ha “più neanche l’intenzione del volo perché ormai il sogno si è rattrappito”.